Intervista a Roberto Doati (1/3)

Pubblichiamo oggi la prima delle tre parti dell’intervista al M° Roberto Doati, che desideriamo ringraziare per aver accettato il nostro invito. Altre informazioni sulla sua attività sono reperibili sul sito internet www.robertodoati.com

Roberto Doati – foto: Michele Mannucci

 

Chi è Roberto Doati?

Ho iniziato a interessarmi di musica all’età di circa 11 anni, e non mi riferisco alla musica classica quanto alla musica che in quegli anni – stiamo parlando degli inizi degli anni 60 – in generale si chiamava musica rock.

Con alcuni compagni di scuola cercavamo di imitare i Rolling Stones, i Beatles e, un po’ alla volta, ho scoperto il mondo del cosiddetto rock blues e quindi mi sono appassionato a musicisti come Frank Zappa e Jimi Hendrix.

In breve tempo, facendo un percorso a ritroso, mi sono avvicinato al jazz grazie al Miles Davis “elettrico” la cui musica interessò molti giovani alla fine degli anni ’60 e primissimi anni ’70.

Ascoltando molto jazz e soprattutto la cosiddetta avanguardia, rappresentata da musicisti come Orrnette Coleman e John Coltrane, arrivai alla free improvisation, l’improvvisazione libera.

Lo strumento che suonavo agli inizi era il basso elettrico ma poi passai al contrabbasso, e tutto questo senza prendere lezioni, completamente da autodidatta. Come musicista ero una frana e studiavo poco.

Ci fu una vera e propria svolta quando Stockhausen pubblicò il suo album Aus den sieben Tagen, questa voluminosa raccolta di improvvisazioni veramente libere, che lui e i suoi fedelissimi interpreti avevano registrato nel 1968.

Quel lavoro mi introdusse alla musica elettronica perché, in quelle sessioni di registrazione, Stockhausen la utilizzava come uno degli aspetti principali della sua produzione.

Cominciai così a fare gli esperimenti che in quegli anni si potevano realizzare con un registratore a nastro Geloso, tagliando, montando e rovesciando il nastro.

In seguito capii che quegli esperimenti facevano parte dell’estetica della musica concreta, quella creata da Pierre Schaeffer nel secondo dopoguerra a Parigi.

Tutto questo mi convinse poco a poco a iniziare a studiare avevo bisogno di qualcuno che mi insegnasse qualche cosa di più di quel poco che potevo fare registrando suoni di varia origine, non solo strumentale, tagliandoli e montandoli con il nastro.

Siccome in quegli anni – sto parlando del periodo dal 1974 al 1977 – lavoravo nell’ambito dell’arte contemporanea. Per una serie di ragioni mi sono trovato a studiare arte contemporanea con Germano Celant, fondatore del Movimento Arte Povera e poi a lavorare alla galleria d’arte Samangallery a Genova, dove sono passati i più grandi artisti tra la fine degli anni ‘60 e la metà degli anni ‘70.

In una di queste occasioni conobbi Giuseppe Chiari performer, compositore, appartenente anche al gruppo Fluxus, che mi consigliò di andare a studiare musica elettronica a Firenze.

Così feci e, quindi, sempre da Genova facendo il pendolare per due anni, studiai musica elettronica al conservatorio “Luigi Cherubini” con Albert Mayr che mi insegnò molto, oltre all’uso dei sintetizzatori – perchè in quegli anni lo strumento prevalentemente utilizzato era il sintetizzatore – anche sul concetto di paesaggio sonoro che poi svilupperò in seguito.

Ebbi anche la fortuna di poter studiare con Pietro Grossi, che è stato uno dei primi in Italia a utilizzare il computer o, come si chiamava all’epoca, calcolatore elettronico per fare musica.

Per fare questo bisognava andare al centro di calcolo del CNR di Pisa, dove Grossi era riuscito a fondare un centro di musicologia, il CNUCE, dove era possibile accedere a questi calcolatori, macchine enormi, molto lontane da quelle che oggi possiamo immaginare, se pensiamo a un computer: niente di portatile ma soprattutto niente di accessibile dal punto di vista economico.

Con Grossi ho imparato il concetto di composizione algoritmica, ovvero l’idea che la composizione, oltre a essere scrittta in maniera tradizionale, può essere anche realizzata come elenco di istruzioni da passare ad un software che poi eseguirà le scelte del compositore.

Dal punto di vista della qualità sonora non ero, però, soddisfatto: a Pisa c’erano solo degli oscillatori ad onda quadra, un suono un po’ simile al quello del clarinetto, un suono nasale, che dal punto di vista timbrico era molto limitato. Nel 77 ho conosciuto Alvise Vidolin che, con il suo gruppo di giovani colleghi ingegneri e musicisti dell’università di Padova, aveva da poco acquisito un software creato negli Usa da un ricercatore che si chiamava Max Mathews.

Il linguaggio si chiamava Music V e consentiva il controllo assoluto del suono perchè non doveva passare attraverso alcun generatore analogico.

Si aveva quindi il controllo digitale assoluto e, quindi, in teoria si poteva creare qualsiasi suono.

Questa possibilità mi affascinò a tal punto da convincermi a lasciare il conservatorio di Firenze e concludere i miei studi al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia.

Dopo il diploma è cominciata la mia carriera, che si è ovviamente fortemente avvalsa delle disponibilità dell’università di Padova, di quello che oggi si chiama CSC Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, delle tante persone oltre a quelle che ho nominato, che ho incontrato e che hanno avuto una grande influenza su di me.

I miei risultati musicali e i riconoscimenti si possono trovare sul mio sito www.robertodoati.com.

 

Leggiamo dalla biografia che, dopo aver iniziato la sua attività, passa dall’improvvisazione libera alle esperienze di taglio e montaggio del nastro magnetico. La mente viaggia e arriva a quello che era lo Studio di Fonologia della RAI di Milano. Tanta manualità, precisione, artigianato. Quanto rimane di tutto questo nella sua attività odierna, dove l’elaboratore si è affermato prendendo – se possiamo dirlo – il posto di forbici e righello?

In un certo senso ho già risposto a questa domanda nella precedente ma, per essere più chiaro, diciamo che il fatto di avere vissuto un’epoca di transizione fra la cosiddetta tecnologia analogica e il dominio digitale mi ha sicuramente formato.

Forse oggigiorno avrebbe più senso porre questa domanda, non tanto facendo un confronto tra la manualità che era necessaria nel taglio e montaggio del nastro, quanto sulle competenze per dover comunicare con una macchina, un computer, che era molto lontano come dicevo rispondendo alla domanda precedente, molto lontano da quello che noi oggi conosciamo; oggi è possibile digitare direttamente su una tastiera di un computer i comandi per ottenere un certo suono, negli anni 70 questo non era possibile, ovvero significava dover utilizzare non le forbici ma, diciamo, il righello concettuale, nel senso che, prima di ottenere un suono, era necessario introdurre una grande quantità di numeri nel computer per poter ascoltare il risultato, magari il giorno dopo.

Sarebbe come dire a un pianista: “Tu premi il tasto adesso e il suono lo senti domani mattina”.

Ecco, con questo modo di procedere è chiaro che era necessario, per il compositore che voleva utilizzare questi nuovi strumenti, avere in un certo senso già prefigurato il risultato sonoro, perchè il distacco fra il pensiero del suono e la sua materializzazione era grande.

Questa fase per così dire “precompositiva” mi fu e mi è ancora oggi molto utile.

Per amor del cielo, non voglio fare come molti l’elogio del passato perchè poi ognuno, anche i giovani di adesso, fra trenta o quarant’anni avranno il loro passato!

Però sono soddisfatto di avere vissuto questa fase perchè oggigiorno è talmente facile ottenere con un click del mouse un suono che sia “gradevole” ovvero un suono che abbia un certo contenuto estetico, che spesso fa perdere di vista al giovane compositore l’obiettivo musicale, ovvero il progetto compositivo e, siccome una volta si faceva molta fatica per ottenere un suono anche di qualche decimo di secondo, questo ci imponeva un modo di pensarlo come già facente parte della fase compositiva.

Si imparavano un sacco di cose. Oggi questa fase di composizione del suono invece è molto alleviata, il che da un certo punto di vista è un bene.

 

Fine della prima parte

 

Please follow and like us: