Due chiacchiere con…Francesco Giannico

Francesco Giannico

Chi è Francesco Giannico?

Sono un musicista elettroacustico, un web designer e un video artista. Ho evidentemente diversi interessi (forse troppi) ma non sono solo una parte del mio lavoro, rappresentano una componente importante del mio modo di sentire la vita in generale.

Negli ultimi anni ho cercato di raccogliere un po’ le fila del concetto di paesaggio sonoro che ho sviluppato nel corso del tempo. Infatti ha diversi campi di applicazione ma su questo tanto è stato raccontato anche passando da diverse esperienze, come quella dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori che è stata forse l’associazione (nasce prima come collettivo) che ho contribuito a far nascere assieme ad altri sound artist italiani e che più ha influito sulla mia produzione di alcuni anni fa.

Tutte le esperienze che si sono succedute negli anni hanno sicuramente cambiato la mia idea di paesaggio sonoro e di come si possa lavorare con esso in diverse modalità. Dai workshop alle installazioni, passando per le performance e a tantissime altre situazioni, devo dire che ho potuto lavorare assiduamente su un concetto ampio e sfuggevole come il soundscape per riportarlo ad una dimensione che a me interessa davvero: mi piace che esso sia una chiave non solo per aprirsi a nuovi ascolti ma anche per introdurre argomenti nuovi ad esso collegati. Spesso non ci si rende conto di come questo tema racchiuda al proprio interno una ricchezza di legami con altre questioni. Si tratta di un argomento politicamente attivo, perché permette di aprire delle porte su tematiche inaspettate, su degli ambiti che altrimenti alcuni difficilmente seguirebbero, quindi da questo punto di vista mi ritengo molto felice di aver scelto questa strada.

L’ecologia del suono per Francesco Giannico

L’ecologia del suono è appunto il macro-tema all’interno del quale possiamo discorrere di acustica del paesaggio sonoro, che è un elemento misurabile in quanto elemento fisico, rappresenta quindi evidentemente una componente più materica; c’è poi una parte più legata alla psicoacustica, alla percezione acustica che abbiamo del mondo e a come questa influenzi la nostra vita, sia da un punto di vista prettamente umorale sia da un punto di vista fisico. L’inquinamento acustico è la manifestazione più eclatante di come i suoni possano cambiare il nostro benessere psicofisico.

Cosa fai adesso?

Da qualche anno ormai sono un libero professionista, lavoro con la mia partita iva in una serie di ambiti: uno è quello del sound design, motivo per cui ci siamo incontrati per questa intervista. Ci sono poi altri ambiti ai quali sono molto legato, perché sono connessi alla mia natura un po’ da “nerd” del mondo informatico come il web design o il web marketing e tutto ciò che riguarda la tecnologia e il mondo della comunicazione. 

Per anni ho lavorato su tutti questi temi non legandoli gli uni agli altri perché riferiti a diversi ambiti professionali e anche se vuoi a livello di committenza le direzioni divergevano nettamente. Dopo tanti anni ho deciso finalmene di unire i puntini della mia vita lavorativa aprendo un mio studio personale, a Conversano, nella città in cui vivo dove allargherò tutte queste attività a percorsi formativi sugli stessi temi. La formazione in effetti è l’altra mia grande passione.

Cos’è per te il soundscaping?

In parte ti ho risposto prima. Il soundscaping è un’attività che ha dei risvolti estremamente interessanti, perché si profila come una chiave di lettura del mondo, della quale dovremmo avere più considerazione.

Il senso è quello di non pensare alle attività legate al tema del soundscape come un momento per appassionati, tecnofili, o espertissimi del settore, ma di considerarlo alla stregua di una passeggiata tra amici: fare soundwalking con amici, conoscenti o un gruppo di studio, per conoscere meglio il proprio territorio, è una pratica estremamente arricchente, al pari un po’ delle passeggiate di quartiere praticate da alcuni gruppi di architetti visionari e sociologi. Anche in questo caso, in quanto musicologi o semplicemente appassionati di soundscape, la soundwalk può restituire una cartina tornasole di una comunità, di una città, di un territorio e delineare un quadro estremamente interessante di quelli che possono essere dei punti di forza o delle criticità. E’ quindi  uno strumento politico molto potente, se utilizzato in una chiave di democrazia partecipata. Non dimentichiamo inoltre che non rimane un’attività fine a se stessa, chi fa soundscaping spesso rielabora elettronicamente questo materiale audio realizzando ad esempio, live performance, installazioni o archivi digitali e produzioni musicali.

Qualunque cosa venga prodotta dalla nostra raccolta di materiali audio, ha dei risvolti incredibili non relativi solo all’output della produzione in se ma, indirettamente, coinvolge le persone di un luogo, di una città, di un territorio di qualunque zona e può quindi può innescare dei processi partecipati su argomenti estremamente complessi da discutere e condividere in condizioni normali. Da questo punto di vista, ci vedo uno strumento politicamente molto potente ma che deve ancora essere compreso appieno.

Produzioni discografiche e non..

Si, sono abbastanza attivo dal punto di vista discografico ma non riesco a produrre più di un disco all’anno. Sento di dover dedicare una certa quantità di tempo per raggiungere i risultati che desidero e lavorare in maniera adeguata sulla qualità della produzione.

Sicuramente gli ultimi tre anni sono stati abbastanza ricchi: ho prodotto infatti tre album che hanno delineato un tipo di percorso nuovo e che mi piacerebbe mantenere rispetto all’estetica delle mie produzioni. Si tratta di dischi come “Misplaced” uscito per l’etichetta italiana “Adesso” e poi c’è “Destroyed by madness”, disco che si discosta dal punto di vista della composizione rispetto ai precedenti; se confrontato con il primo, c’è più pianoforte ma s’inserisce anch’esso nel solco del concetto di cambiamento di utilizzo del soundscape all’interno delle produzioni musicali. Nella prima fase della produzione dei miei dischi ho dato un’attenzione non da poco all’elemento “field recording”. Ad esempio, il disco “Metrophony”, che ho inciso qualche anno fa, era una sorta di studio “non dichiarato” sul paesaggio sonoro della Metro B di Roma, infatti l’album era costituito da una traccia unica della durata del percorso della metro. Negli ultimi dischi il paesaggio sonoro viene trattato diversamente, inizialmente ero molto analitico e documentavo ogni cosa, ora è un attegiamento che mantengo soprattutto in alcuni lavori site-specific su commissione, come all’interno di alcune residenze artistiche. La geografia del paesaggio è più sfuggente per l’ascoltatore dei miei ultimi album dove ha meno riferimenti e deve affidarsi maggiormente alle proprie orecchie e al proprio cuore per proseguire l’ascolto. Avere le mani libere dal punto di vista dell’estetica musicale che tu stesso ti sei imposto ti lascia sicuramente più spazio per il cambiamento.

Quello che non ti chiedo e vorresti ti fosse chiesto?

Nessuno per esempio mi ha mai chiesto che cosa ce ne faremo mai di tutti questi suoni che costantemente raccogliamo. In effetti potrei avere io stesso difficoltà a rispondere.

A parte gli scherzi, c’è una grande quantità di persone che registra costantemente ogni cosa, sempre di più visto che i mezzi oggi lo permettono.

Il punto però forse sarebbe capire cosa si sta registrando e perché, se lo si fa in ottica documentativa allora forse varrebbe la pena porsi alcuni interrogativi rispetto alla conservazione di questo materiale. Ancora oggi gli archivi digitali non hanno modelli univoci di conservazione a differenza dei vecchi e polverosi archivi cartacei istituzionali. Certo questa visione documentaria un po’ anarcoide ha da un lato favorito il proliferare di piattaforme di ogni tipo per la raccolta di alcuni specifici materiali audio ma in alcuni casi ci sono state delle spiacevolissime sorprese, difatti alcune di queste piattaforme hanno chiuso all’improvviso i battenti vanificando il lavoro di centinaia di utenti appassionati. E non parliamo sempre di siti da quattro soldi ma anche di progetti finanziati da enti come la BBC, mi riferisco in particolare al progetto intitolato “Save our Sounds” di qualche anno fa.

Capite bene che, se persino un archivio della BBC non resiste alle problematiche del digitale, allora c’è da porsi dei grandi interrogativi per il futuro.

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