Intervista a Roberto Doati (3/3)

Formarsi con A. Vidolin e praticare la Biennale. Possiamo parlare di una vera e propria scuola veneziana?

Se si parla di una scuola veneziana non si fa certo riferimento al fatto che io mi sia diplomato con Alvise Vidolin e che abbia collaborato con lui alla Biennale di Venezia quando lui ne dirigeva il laboratorio per l’informatica musicale.

Il termine “scuola veneziana” lo si deve probabilmente più al fatto che due grandi compositori che si dedicarono alla musica elettronica fossero appunto veneziani e mi riferisco a Bruno Maderna e Luigi Nono.

Sarebbe forse più corretto parlare di una “scuola padovana” perché oltre al fatto che Alvise sia stato, per vent’anni e oltre, docente di musica elettronica al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, e che abbia fondato il laboratorio di informatica musicale della Biennale di Venezia, grazie all’apertura mentale e all’interesse dell’allora direttore artistico Mario Messinis, a cui si debbono molti interventi a favore della musica elettronica, direi che sarebbe forse più corretto parlare di una scuola padovana nel senso che era il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova che metteva a disposizione di molti compositori, non solo veneti, le apparecchiature che non si trovavano altrimenti in Italia, in particolare il software Music V, che esisteva solo negli Usa o, a partire dal ‘77, all’IRCAM di Parigi. 

Naturalmente, debbo molto a Venezia e quindi all’influenza dei colleghi come Maderna e Nono che mi hanno preceduto e al magistero di Alvise Vidolin che, pur non essendo un compositore, in realtà ha formato, almeno per quanto riguarda il controllo della sintesi e l’elaborazione del suono attraverso il computer, generazioni di compositori.

Ricordo che lo stesso Nono citava il fatto che Alvise non fosse solo un ingegnere ma che avesse una mentalità, un approccio compositivo, con un elemento aggiuntivo di qualità didattica in più: ovvero non era compositore e quindi non c’era nessun rischio di esserne plagiati perché lui non praticava la composizione per sé, ma la praticava per gli altri.

Questa fu una ricchezza per tutti noi che studiammo con lui e di cui gli siamo ancora riconoscenti. Proprio quest’anno festeggeremo i 70 anni di Alvise al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia dove Paolo Zavagna, l’attuale docente di musica elettronica, ha organizzato un concerto con opere dedicate e scritte per Alvise, da un certo numero di suoi allievi e, fra questi, avrò il piacere di essere presente.

Sempre dalla sua biografia apprendiamo che, dal 2013, si occupa di estetica del gusto. Può aiutarci a capire maggiormente cosa s’intenda con tale terminologia, associata alla musica e alle arti visive?

La mia prima esperienza con il cibo dal punto di vista sonoro e visivo è la conseguenza di un invito che il mio caro amico Gianni Revello mi fece nel 2013, invitandomi all’Osteria Francescana di Massimo Bottura che, oltre ad essere un suo caro amico e notissimo chef sempre in cima alle graduatorie dei più grandi chef del mondo, aveva una passione sia per l’arte visiva che per la musica. 

In particolare devo dire che apprezzava il jazz del periodo be-bop e Thelonius Monk era uno dei suoi autori preferiti. Così Gianni mi disse: “Vieni a vedere come lavora Bottura”.

Da qualche anno che avevo cominciato a realizzare dei video musicali, ovvero delle opere audiovisive in cui ero autore sia della parte visiva che della parte sonora.

Dal punto di vista visivo, l’ambiente della cucina è straordinario: il colore, le forme, i materiali.

Anche se non avevo mai autonomamente pensato di avvicinarmi al cibo come sorgente di ispirazione, avevo però sempre considerato, in quanto buongustaio, le somiglianze tra la composizione e la cucina. Sono tanti gli esempi paralleli che si possono fare: quello più semplice che in questo momento mi viene in mente è il fatto che, sia nella musica che nella cucina, abbiamo una tradizione, dei manuali, delle indicazioni da chi ci ha preceduto, sui vari ingredienti che sono i materiali base.

Anche nella musica elettronica si parte dalla registrazione di suono e quindi abbiamo materiale base, che  poi deve essere elaborato e, dall’elaborazione di questo materiale vengono fuori gli ingredienti.

Gli ingredienti rappresentano già un’operazione compositiva e con essi si realizza poi il piatto finale, la composizione.

Quindi con quest’invito, oltre ad apprezzare naturalmente la grande maestria del cuoco Bottura, mi interessava realizzare una demo di 5 minuti con riprese dei suoi piatti e di suoni relativi alla loro preparazione.

Purtroppo, il giorno in cui andai, Bottura aveva ricevuto un invito molto importante, non ricordo più da chi, un impegno molto più importante di quello che aveva preso con me e quindi non ci incontrammo mai.

Io realizzai questa demo con dei suoni realizzati nella mia cucina casalinga.  Il caso vuole però che io avessi un  cognato cuoco del veneto orientale che, appena vide questa demo, mi disse testualmente: “Se questo progetto non lo fa Bottura, sappi che io sono interessato.”

Mio cognato era una persona estremamente aperta e disponibile mentalmente; capace, pur partendo da un semplice piatto – quello che scegliemmo erano le seppie con la polenta bianca e il melograno – di capire la follia di riprendere i passaggi dalla materia prima all’elaborazione, alla preparazione, la presentazione di questo piatto.

Sentiva empaticamente questi passaggi e anche se il suo linguaggio era quello della cucina, questo non gli aveva impedito assolutamente di entrare nello spirito mio e del mio collega Paolo Pachini che ha realizzato la parte video. Credevo e credo che l’impegno per realizzare un video musicale da solo sia troppo elevato. Nel lavorare a questo tipo di opere, che ho fatto rientrare nell’ambito dell’estetica del gusto, occorre un certo distacco. Quando tu devi fare le riprese video e le riprese audio, a quel punto non hai più distacco, sei troppo dentro la materia e non riesci a vedere le possibilità di sviluppo di questo materiale che diventerà poi un’opera audiovisiva. Quindi chiesi aiuto a Paolo Pachini, che fece tutte le riprese video.

Il risultato ebbe una grande risonanza, a tal punto che venne presentato anche nel festival genovese “La storia in piazza” . Questo fatto mi fece voglia di continuare a lavorare in questo ambito e proprio in questo ultimo anno sto occupandomi della seconda di una trilogia audiovisiva che si chiama “Il suono rosso”, ho già realizzato “Il suono bianco” con le immagini e i suoni di un caseificio molto antico che si trova in Molise, mentre sto realizzando “Il suono rosso” in un’azienda vinicola dei Colli Piacentini.  A questo farà seguito “Il suono verde” che si dovrebbe occupare delle verdure, dei vegetali. In tutti questi casi, come ho detto prima, io realizzo solo la parte sonora, per la parte visiva mi avvalgo di persone che, pur lavorando prevalentemente nell’ambito del video, possiedono competenze anche nel campo della musica.

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Intervista a Roberto Doati (2/3)

Roberto Doati – Foto: Diana Lapin

Veniamo a una domanda, solo apparentemente, banale: le modalità di avvicinamento alla musica elettronica da parte di un giovane negli anni ’70, rispetto a uno dei giorni nostri, presentano differenze. Secondo lei, modalità a parte, c’è un denominatore comune tra le due situazioni? 

Penso che il termine “modalità a parte” nella sua domanda voglia fare riferimento all’aspetto tecnico, che è quello che ho già descritto prima: stiamo parlando di un’applicazione, quella musicale, che fu tra le prime ad essere utilizzata nell’ambito dell’informatica, dopo quella bellica naturalmente, che è stata la prima ragione per la costruzione dei cosiddetti computer.
Nelle arti possiamo affermare che la musica è stata la prima a utilizzare questa tecnologia.
Quindi è un po’ difficile escludere questo aspetto perché, come dicevo prima, nella seconda metà degli anno ’70 si era già abbastanza diffusa la tecnologia digitale anche se un numero molto ristretto di persone rispetto a quello che è oggi iniziava a utilizzarla, occorreva ancora tempo prima che da questa tecnologia possa nascere un linguaggio.
Faccio un esempio semplice per farmi capire meglio: quando è nato il cinema, se guardate le prime pellicole alla fine dell’800, che cosa sono?
Non sono altro che delle riprese, quasi sempre realizzate in teatri di posa cioè sono delle riprese di quello che una volta era il teatro.
Il cinema ha impiegato diversi anni prima di poter essere concepito ed elaborato come linguaggio.
La stessa cosa è avvenuta con la musica digitale: facciamo riferimento alla musica elettronica degli anni ‘50, quindi a una musica che utilizza hardware analogico e ci troviamo in una posizione analoga, nel senso che cambia lo strumento, cambia il mezzo ma i principi compositivi rimangono gli stessi.
C’è l’idea che il compositore possa estendere la sua azione, non solo mettendo insieme delle note ma collegando gli atomi che compongono queste note.
Uno slogan degli anni ‘50 sulla musica elettronica diceva: “Grazie alla musica elettronica adesso potremmo non solo comporre con i suoni, ma comporre anche i suoni”.
Quindi sarebbe come se un compositore dovesse scrivere per orchestra senza dare per scontato di avere a disposizione violini, viole, violoncelli, ecc ecc. ma di dover ogni volta costruirsi uno strumento.
Si è dato vita ad un linguaggio – dopo quasi un secolo, se lo calcoliamo dal secondo dopoguerra – della musica elettronica o meglio sarebbe definirla come la chiamiamo noi del settore “musica elettroacustica”, comprendendo con questo termine non solo suoni prodotti dalla sintesi del suono ma anche suoni acustici, suoni di strumenti più o meno elaborati che siano.
Dal punto di vista quindi del linguaggio, oggi un giovane che comincia a occuparsi di musica elettronica si trova già di fronte un repertorio abbastanza vasto, certo non comparabile a quello di una musica realizzata con strumenti acustici, però già sufficiente per avere molti punti di riferimento.
E poi c’è l’influenza degli altri linguaggi. Oggi, nella maggior parte dei casi, se non ci si rivolge appunto ai cosiddetti specialisti o addetti ai lavori, quando si usa il termine “musica elettronica” si pensa a una musica fortemente influenzata dal mondo pop, inteso in senso ampio, quindi di tutti i generi musicali che non appartengono alla musica classica.
La musica elettronica degli anni ‘50 nasce come un’estensione del pensiero musicale classico,
un modo di pensare la musica che ha dei riferimenti, per quanto minimi, con la musica del passato.
Intendo dire che nella seconda metà del ‘900, la musica elettronica ha rappresentato uno dei diversi modi, forse il più importante, per rinnovare il linguaggio musicale classico, diventando poi quello che normalmente si chiama “contemporaneo”.
La maggior parte delle persone a cui dici oggi: “Faccio musica elettronica” invece pensa a una musica che sia di sostegno ad una danza oppure che sia di sottofondo a un’immagine sottraendo così alla musica elettroacustica la sua autonomia di linguaggio.
Diciamo che, oggigiorno, un giovane che si voglia avvicinare alla musica elettronica e lo faccia attraverso i corsi dei conservatori italiani, si trova davanti una generazione di docenti, la mia, e quella dei miei allievi, ovvero di tutti i docenti che oggi hanno circa 40 anni, provenienti dalle esperienze di Stockhausen, Berio, Cage.
Non so cosa succederà quando questa classe di docenti lascerà il posto alle nuove generazioni
E’ molto cambiato anche il modo di fruire questa musica, è cambiata la risposta della società: la musica elettronica una volta era considerata sperimentazione, ricerca, ma le veniva attribuito comunque un valore culturale alto anche a volte non immediatamente comprensibile.
Oggi, come dicevo, il termine “musica elettronica” si utilizza in ambienti e contesti sociali molto diversi, per cui chi continua a fare musica come faccio io, non appartiene neanche più come una volta a una nicchia di compositori, sperimentatori, ricercatori, perché giustamente poi a una certa età cosa si vuol ricercare e sperimentare, se non hai ancora capito cosa fare dopo i primi anni di sperimentazione, non c’è più niente da capire.
Per cui la musica elettroacustica dei compositori che appartengono alla mia generazione, rientra nell’ambito della cosiddetta cosiddetta musica contemporanea, un nome molto generico che non vuol dire assolutamente niente.

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Missione Luna

Missione Luna, il nuovo singolo dei Buio Pesto

Missione Luna: il nuovo singolo dei Buio Pesto per l’anniversario dello sbarco. 

A cinquant’anni dallo sbarco sulla Luna i Buio Pesto offrono un omaggio alle canzoni italiane dedicate al nostro satellite, da Mina a Caparezza.

Nel cinquantesimo anniversario della missione spaziale Apollo 11, che il 20 luglio 1969 portò per la prima volta l’uomo sulla Luna, in tutti i negozi digitali di musica esce “Missione Luna”, il nuovo singolo dei Buio Pesto (casa discografica Rusty Records, distribuzione Believe Digital).

La canzone, sfrenato brano pop-dance, non è solo il brano che sta facendo ballare le piazze liguri nel tour di quest’estate, ma farà parte della colonna sonora del prossimo e sesto film della band ligure, che si intitolerà proprio Missione Luna. Scritto e diretto dal leader del gruppo Massimo Morini,
il film sarà una commedia fantascientifica a sfondo musicale, che uscirà nei cinema nel 2020 per poi approdare in televisione. Per le prime informazioni: www.missioneluna.it

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Intervista a Roberto Doati (1/3)

Pubblichiamo oggi la prima delle tre parti dell’intervista al M° Roberto Doati, che desideriamo ringraziare per aver accettato il nostro invito. Altre informazioni sulla sua attività sono reperibili sul sito internet www.robertodoati.com

Roberto Doati – foto: Michele Mannucci

 

Chi è Roberto Doati?

Ho iniziato a interessarmi di musica all’età di circa 11 anni, e non mi riferisco alla musica classica quanto alla musica che in quegli anni – stiamo parlando degli inizi degli anni 60 – in generale si chiamava musica rock.

Con alcuni compagni di scuola cercavamo di imitare i Rolling Stones, i Beatles e, un po’ alla volta, ho scoperto il mondo del cosiddetto rock blues e quindi mi sono appassionato a musicisti come Frank Zappa e Jimi Hendrix.

In breve tempo, facendo un percorso a ritroso, mi sono avvicinato al jazz grazie al Miles Davis “elettrico” la cui musica interessò molti giovani alla fine degli anni ’60 e primissimi anni ’70.

Ascoltando molto jazz e soprattutto la cosiddetta avanguardia, rappresentata da musicisti come Orrnette Coleman e John Coltrane, arrivai alla free improvisation, l’improvvisazione libera.

Lo strumento che suonavo agli inizi era il basso elettrico ma poi passai al contrabbasso, e tutto questo senza prendere lezioni, completamente da autodidatta. Come musicista ero una frana e studiavo poco.

Ci fu una vera e propria svolta quando Stockhausen pubblicò il suo album Aus den sieben Tagen, questa voluminosa raccolta di improvvisazioni veramente libere, che lui e i suoi fedelissimi interpreti avevano registrato nel 1968.

Quel lavoro mi introdusse alla musica elettronica perché, in quelle sessioni di registrazione, Stockhausen la utilizzava come uno degli aspetti principali della sua produzione.

Cominciai così a fare gli esperimenti che in quegli anni si potevano realizzare con un registratore a nastro Geloso, tagliando, montando e rovesciando il nastro.

In seguito capii che quegli esperimenti facevano parte dell’estetica della musica concreta, quella creata da Pierre Schaeffer nel secondo dopoguerra a Parigi.

Tutto questo mi convinse poco a poco a iniziare a studiare avevo bisogno di qualcuno che mi insegnasse qualche cosa di più di quel poco che potevo fare registrando suoni di varia origine, non solo strumentale, tagliandoli e montandoli con il nastro.

Siccome in quegli anni – sto parlando del periodo dal 1974 al 1977 – lavoravo nell’ambito dell’arte contemporanea. Per una serie di ragioni mi sono trovato a studiare arte contemporanea con Germano Celant, fondatore del Movimento Arte Povera e poi a lavorare alla galleria d’arte Samangallery a Genova, dove sono passati i più grandi artisti tra la fine degli anni ‘60 e la metà degli anni ‘70.

In una di queste occasioni conobbi Giuseppe Chiari performer, compositore, appartenente anche al gruppo Fluxus, che mi consigliò di andare a studiare musica elettronica a Firenze.

Così feci e, quindi, sempre da Genova facendo il pendolare per due anni, studiai musica elettronica al conservatorio “Luigi Cherubini” con Albert Mayr che mi insegnò molto, oltre all’uso dei sintetizzatori – perchè in quegli anni lo strumento prevalentemente utilizzato era il sintetizzatore – anche sul concetto di paesaggio sonoro che poi svilupperò in seguito.

Ebbi anche la fortuna di poter studiare con Pietro Grossi, che è stato uno dei primi in Italia a utilizzare il computer o, come si chiamava all’epoca, calcolatore elettronico per fare musica.

Per fare questo bisognava andare al centro di calcolo del CNR di Pisa, dove Grossi era riuscito a fondare un centro di musicologia, il CNUCE, dove era possibile accedere a questi calcolatori, macchine enormi, molto lontane da quelle che oggi possiamo immaginare, se pensiamo a un computer: niente di portatile ma soprattutto niente di accessibile dal punto di vista economico.

Con Grossi ho imparato il concetto di composizione algoritmica, ovvero l’idea che la composizione, oltre a essere scrittta in maniera tradizionale, può essere anche realizzata come elenco di istruzioni da passare ad un software che poi eseguirà le scelte del compositore.

Dal punto di vista della qualità sonora non ero, però, soddisfatto: a Pisa c’erano solo degli oscillatori ad onda quadra, un suono un po’ simile al quello del clarinetto, un suono nasale, che dal punto di vista timbrico era molto limitato. Nel 77 ho conosciuto Alvise Vidolin che, con il suo gruppo di giovani colleghi ingegneri e musicisti dell’università di Padova, aveva da poco acquisito un software creato negli Usa da un ricercatore che si chiamava Max Mathews.

Il linguaggio si chiamava Music V e consentiva il controllo assoluto del suono perchè non doveva passare attraverso alcun generatore analogico.

Si aveva quindi il controllo digitale assoluto e, quindi, in teoria si poteva creare qualsiasi suono.

Questa possibilità mi affascinò a tal punto da convincermi a lasciare il conservatorio di Firenze e concludere i miei studi al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia.

Dopo il diploma è cominciata la mia carriera, che si è ovviamente fortemente avvalsa delle disponibilità dell’università di Padova, di quello che oggi si chiama CSC Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, delle tante persone oltre a quelle che ho nominato, che ho incontrato e che hanno avuto una grande influenza su di me.

I miei risultati musicali e i riconoscimenti si possono trovare sul mio sito www.robertodoati.com.

 

Leggiamo dalla biografia che, dopo aver iniziato la sua attività, passa dall’improvvisazione libera alle esperienze di taglio e montaggio del nastro magnetico. La mente viaggia e arriva a quello che era lo Studio di Fonologia della RAI di Milano. Tanta manualità, precisione, artigianato. Quanto rimane di tutto questo nella sua attività odierna, dove l’elaboratore si è affermato prendendo – se possiamo dirlo – il posto di forbici e righello?

In un certo senso ho già risposto a questa domanda nella precedente ma, per essere più chiaro, diciamo che il fatto di avere vissuto un’epoca di transizione fra la cosiddetta tecnologia analogica e il dominio digitale mi ha sicuramente formato.

Forse oggigiorno avrebbe più senso porre questa domanda, non tanto facendo un confronto tra la manualità che era necessaria nel taglio e montaggio del nastro, quanto sulle competenze per dover comunicare con una macchina, un computer, che era molto lontano come dicevo rispondendo alla domanda precedente, molto lontano da quello che noi oggi conosciamo; oggi è possibile digitare direttamente su una tastiera di un computer i comandi per ottenere un certo suono, negli anni 70 questo non era possibile, ovvero significava dover utilizzare non le forbici ma, diciamo, il righello concettuale, nel senso che, prima di ottenere un suono, era necessario introdurre una grande quantità di numeri nel computer per poter ascoltare il risultato, magari il giorno dopo.

Sarebbe come dire a un pianista: “Tu premi il tasto adesso e il suono lo senti domani mattina”.

Ecco, con questo modo di procedere è chiaro che era necessario, per il compositore che voleva utilizzare questi nuovi strumenti, avere in un certo senso già prefigurato il risultato sonoro, perchè il distacco fra il pensiero del suono e la sua materializzazione era grande.

Questa fase per così dire “precompositiva” mi fu e mi è ancora oggi molto utile.

Per amor del cielo, non voglio fare come molti l’elogio del passato perchè poi ognuno, anche i giovani di adesso, fra trenta o quarant’anni avranno il loro passato!

Però sono soddisfatto di avere vissuto questa fase perchè oggigiorno è talmente facile ottenere con un click del mouse un suono che sia “gradevole” ovvero un suono che abbia un certo contenuto estetico, che spesso fa perdere di vista al giovane compositore l’obiettivo musicale, ovvero il progetto compositivo e, siccome una volta si faceva molta fatica per ottenere un suono anche di qualche decimo di secondo, questo ci imponeva un modo di pensarlo come già facente parte della fase compositiva.

Si imparavano un sacco di cose. Oggi questa fase di composizione del suono invece è molto alleviata, il che da un certo punto di vista è un bene.

 

Fine della prima parte

 

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Intervista a Carlo Denei

Questa volta parliamo di Carlo Denei, comico e autore televisivo. Ha fatto parte fin dalla sua fondazione dello storico gruppo Cavalli Marci ed oggi è in pianta stabile dal 2005 a Striscia la Notizia. Denei è a Cologno Monzese per curare il monologo iniziale di Ezio Greggio. Quando in gennaio Greggio va via, Denei torna in Liguria a fare molte cose.

Carlo, da gennaio fino a metà settembre come organizzi il tuo lavoro?

In questo momento della mia vita sto facendo parecchie cose oltre al cabaret. Intendiamoci, quello del comico è il gioco che so fare meglio e che amo di più, il cabaret mi ha premiato al di là dei miei reali meriti; grazie alla comicità ho partecipato a diversi programmi televisivi sulle reti Rai e Mediaset, ho calcato per almeno quaranta volte il palco del Politeama Genovese, il “mio” teatro, quattro volte l’Ariston di Sanremo, una quindicina il Ciak e il Nazionale di Milano e così via. Ma non credo che continuerò a salire su un palco anche in tarda età. Se non vorrò scendere, dovrò virare verso altre espressioni che mi permettano di comunicare con la gente, e visto che sistemi per esprimere ne conosco altri, sto cercando di adottarli tutti, o almeno tutti quelli che conosco. Quindi ho deciso di cimentarmi anche in discipline diverse dal cabaret duro e puro.

Ad esempio la scrittura?

Sì, in febbraio è uscito il mio settimo libro, ed è quello che più mi somiglia. S’intitola “Come se fossi sano” ed è quasi un manuale per ipocondriaci. Un vero e proprio diario di un anno vissuto da un incallito ipocondriaco; mai una vera malattia ma ogni giorno un disturbo diverso che viene annotato affinchè non sia dimenticato o peggio, superato da un più grave problema.

La presentazione del libro è stata bellissima. Eravamo da Feltrinelli a Genova, in centro, il relatore per l’occasione era l’attore Alessandro Bianchi, mio amico e collega nei Cavalli Marci. C’era pure un ospite musicale, il cantautore genovese Enrico Lisei con “La nevrosi”, una divertentissima canzone che alla fine degli anni ’90 spesso esibiva al “Costanzo show”. Quel pomeriggio in libreria c’era tantissima gente e tutti comprarono il mio libro che quel giorno andò subito in esaurimento. Non so se Feltrinelli ha poi rifatto gli ordini, perché l’editore è un altro (Cordero Editore).

Ma tu sei realmente ipocondriaco?

Sì, infatti il personaggio del libro non è altro che la mia caricatura.

Quello dell’ipocondria è un argomento che mi ha affascinato e terrorizzato al punto da farmi scrivere (per esorcizzare le mie reali paure) monologhi comici e canzoni. Anni fa, e più precisamente nel 1996, uscì una raccolta in cassetta intitolata “Baci e bacilli” dove c’erano canzoni (un paio di queste furono arrangiate dal maestro e amico, Paolo Besagno) dai titoli che non lasciavano spazio ad altre interpretazioni: “Blocco renale” “Fegato blu”, “Morte in diretta”…

Restando sul tema ipocondria, ti sei anche buttato sul teatro vero e proprio

Bè, si tratta comunque di teatro comico, ma non è certo cabaret, è teatro con tanto di regia, luci e quarta parete. Dall’aprile del 2016 porto in scena “Se c’è pubblico guarisco”, con la regia di Lazzaro Calcagno. Sono dentro la magica scatola a raccontare una storia senza le interazioni col pubblico cui ero abituato. L’ho già replicata parecchie volte e alla fine di ogni rappresentazione ci sono persone che vengono a dirmi: “Anche io sono così ansioso, ma ora che ho visto il tuo spettacolo sento che qualcosa è cambiato”.

Restiamo sul teatro, ho sentito che ti darai al dialettale

Sì, ci siamo quasi ed è un altro sogno che si realizza. L’ultima mia apparizione in una commedia simile l’ho fatta nel 1985, recitavo poche battute in “L’estratto di toromicina” con Franco Palladini, un grande autore e attore di commedie in genovese.

Ho conosciuto la lingua della mia città natale prima di imparare l’italiano. Da bambino, fino all’età di quattro anni, ho dialogato allegramente in genovese con mio nonno materno. Dopo la sua morte non l’ho più parlato se non in sporadiche occasioni, però ho mantenuto la padronanza. Così ho accettato questa nuova scommessa e insieme col mio amico e collega Stefano Lasagna e la mitica e pirotecnica cantante Franca Lai presenteremo in primavera una commedia tutta da ridere, in genovese. Franca interpreterà una improbabile signora delle pulizie con la passione per il canto e durante lo svolgersi della commedia, canterà qualche suo storico pezzo.

A proposito di cantare, parlaci di Juan Bon Govi

È un personaggio semicomico, un cantante che mi sono inventato per comunicare nella mia lingua d’origine. Sul palco racconto che è nato per avvicinare gli anziani che amano il genovese alla canzone italiana ed è una via di mezzo tra la rockstar Jon Bon Jovi e Gilberto Govi: Juan Bon Govi, appunto. Traduco, ma non proprio letteralmente le canzoni di Morandi, di Mina o Ruggeri. Per esempio “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stone” diventa “Ghe-a un fantìn che còmme mi u l’amàva i Trilli e a Franca Lai” Eccetera.

E le canzoni serie?

Quelle le ho sempre fatte, solo che trovavo sconveniente mostrarle in pubblico. Le proponevo ad amici, a mia moglie, alle persone di cui mi fidavo e che a volte potevano dirmi se il pezzo era brutto oppure no. Poi scrissi una canzone nostalgica dal titolo “Secolo e Focaccia”, arrivò all’orecchio dell’allora direttore Alessandro Cassinis che decise di farmela pubblicare. A quel punto basta dubbi o remore, sono diventato un fiume in piena ed ho incominciato a scrivere senza fermarmi. Dopo il cd “Secolo e focaccia” è uscito “L’ora di te”, una raccolta di canzoni pop cantautorali, che mettono al centro della scena l’amore. Amore per la donna che ho sposato, amore per la mia città e anche per il pianeta, così poco amato e sofferente.

Grazie ai miei amici Davide e Alessandro De Muro, chitarristi immensi e splendide persone, ho fatto diversi concerti ed ho preso parte ad un’edizione di “Ottobre De Andrè” organizzata dai “Fieui di caruggi” di Albenga.
Io, ci tengo a dirlo perché non vorrei passare per quello che sa fare tutto, non sono un musicista e suono la chitarra piuttosto male, solo mi diverto a mettere la musica a certe mie parole. Credo sia legale.

Faccio anche canzoni su ordinazione. Ne ho scritto una che parla di artigiani, e qui c’è la collaborazione dei Giovani Canterini di Sant’Olcese, una che parla di pesto e una sulle acciughe. Sono tutte inedite, per adesso, ma spero ne sentirete parlare presto.

Parlaci della tua prossima camminata con i Trilli

Somiglia al mio viaggio a piedi che feci nel 2018 da Genova a Sanremo per promuovere il cd “L’ora di te”.
Quella volta raggiunsi Sanremo in otto giorni col solo uso delle scarpe, era la settimana del Festival, la cosa ebbe un discreto riscontro, ma non il successo che avevo immaginato alla partenza (anche perché alla partenza ne parlò persino Striscia la Notizia), la verità è che il Festival di Sanremo non ti favorisce, ti schiaccia e ti riduce in polpette perché lo spazio lo vuole tutto per se.

Stavolta con Vladi e i Trilli partiremo a piedi da Chiavari, una città del Levante ligure, per omaggiare tutta la Liguria. Metteremo al centro le nostre eccellenze e non solo musicali. (cucina, scultura, danza, sport, poesia e pittura del nostro territorio).
E poi la lingua: a trentacinque anni dal debutto al festival di Sanremo di Pippo e Pucci, i Trilli riporteranno a Sanremo “Pomeriggio a Marrakech”, la canzone con cui i Trilli avevano partecipato cantando in italiano, solo che stavolta la faranno rigorosamente in lingua ligure.
Partiremo il lunedì di pasquetta, 13 aprile 2020, lontani dal Festival e saremo come un treno che si ferma a far salire gli artisti che avranno piacere di parlare di un loro lavoro, vecchio o nuovo e potranno portarlo sul palco la sera del nostro arrivo alla tappa conclusiva su un palco importante. Abbiano chiesto l’Ariston. Speriamo ce lo diano.

Denei, concludendo, a Roma direbbero: facce ride

Ok, chiudo con una battuta su noi genovesi a cui non rinuncio mai nei miei spettacoli e che racchiude l’essenza della nostra presunta tirchieria: noi genovesi, in caso di suicidio, non ci uccidiamo col gas ma con la luce; accendiamo la luce in tutte le stanze e ci lasciamo morire d’infarto davanti al disco del contatore che gira come un frullino.

Non esiste più il contatore della luce col disco, ma la battuta resiste e, vi assicuro, fa sempre un certo effetto sulla gente.

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Intervista a Enrico Lisei

Enrico Lisei – Foto: Angelo Lavizzari

Chi è Enrico Lisei?

Eh..bella domanda! Potrei partire dal curriculum, ma quello lo trovi su wikipedia o sul sito www.enricolisei.it. Vediamo… potrei dirti che è un uomo che per buona parte della sua vita e ancora adesso, segue le sue passioni, si diverte, legge tanto e si pone domande, dubbi, su quale sia la nostra funzione in tutta questa realtà che chiamiamo mondo o vita. Anche se a volte cedo alla malinconia, ho la fortuna di essere un ottimista.

In questo periodo, a parte la gioia di vedere pubblicato il terzo album Leggero, sono ancora inquieto e triste per la vicenda tragica del Ponte Morandi. In primis per le vittime, poi per il fatto che la mia infanzia l’ho passata proprio lì sotto; mia madre vive ancora oggi al limite della zona rossa.

Posso poi aggiungere di essere curioso verso qualunque forma d’arte e interessato alle storie delle persone per un senso di comunità e solidarietà germogliato fin quando ero piccolo, come mi è successo anche con la musica d’altronde.

Leggiamo dalla tua wikipagina: cantautore, psicologo e terapeuta. Quale significato ha oggi il termine “cantautore” e quanto ha pesato sulla tua maniera di scrivere e sulla tua creatività essere psicologo e terapeuta? Se parli di umanità per scrivere canzoni, puoi avere, una riserva enorme di materiale quasi inesauribile se osservata con gli occhi del terapeuta…

Se andiamo a vedere, il termine cantautore oggi ha un significato diverso da quando iniziai, cioè nel 1982 vincendo un concorso di Teddy Reno e Rita Pavone che mi portò a firmare una opzione discografica con la RCA. Io sono cresciuto in un epoca in cui il cantautorato era un qualcosa di “alternativo” ad un certo tipo di musica più “leggera”, il cantautore andava ascoltato e stimolava il pensiero, la riflessione critica anche con canzoni apparentemente semplici; era un momento storico dove la musica aveva un vero spazio per l’ascolto e non mi riferisco solo ai cantautori, ma anche ai musicisti come i Genesis o i Pink Floyd. Purtroppo questo spazio adesso non c’è quasi più, perché tutto si è velocizzato e un po’ appiattito. Quanto ha pesato il mio essere terapeuta sulla mia creatività di cantautore? In un primo momento, da ragazzo, non immaginavo nemmeno di diventare psicoterapeuta e quindi a quel tempo ti avrei detto..cosaaa? Oggi ripensandoci ti dico, si, molto. Questo si collega a quello che dicevo prima, cioè che sono sempre stato interessato alle storie delle persone, ai loro desideri che scoprivo essere parte di me; ho anche sempre trattato temi dell’amore, in tutte le sue forme dal sociale al privato. Direi soprattutto che la creatività arriva a getto continuo quando ti accorgi come uno stesso desiderio possa essere realizzato in tante forme quante sono quelle in cui si manifesta l’umanità.

Nel 1993 arriva l’esperienza a Sanremo, un momento che molti giovani artisti vorrebbero vivere. Rispetto ad allora, cos’è cambiato in questi venticinque anni e cosa ci si aspetta adesso da un artista che si affaccia alla cosiddetta notorietà?

Sanremo è stata una esperienza straordinaria. Fui scelto da una commissione dove c’erano persone di cui avevo una grande stima come Pino Donaggio, Sergio Bardotti, Carla Vistarini, Mario Pezzolla, oltre ovviamente a Pippo Baudo. Per me il solo fatto di essere stato scelto fu un successo, oltretutto si trattava di affrontare quel palco che sognavo da bambino. Nell’esibizione pensai che dovevo suonare per il pubblico nel teatro, anche perché il solo pensiero di essere visto da milioni di persone mi terrorizzava. Andò bene per la critica, per il teatro, meno bene per i voti da casa, forse perché il pezzo non era proprio da Sanremo, fu un errore mio e del discografico che non supportò bene il progetto dopo il festival. Comunque c’è da dire che le aspettative su di un artista che partecipava al festival di Sanremo erano alte, cariche di ansia e di tensione, cosa che adesso mi pare quasi paradossale per una passerella di canzoni, anche se bisogna dire che è sempre stato un grande business per impresari e discografici. Sbagliare Sanremo significava non avere tournee, o uscire dal giro in breve tempo.

Oggi a mio parere, è rimasta l’unica vetrina per nuove canzoni, ma vuoi per il fatto che da festival si sia trasformato in show, vuoi per la nascita dei talent (su cui i discografici fanno più affidamento perché non hanno più spese promozionali per un artista di solito giovanissimo, dal momento che quest’ultimo, se inserito nel programma, ha mesi di spazio televisivo assicurato), non ha più quella importanza che aveva un tempo. Però il giovane che esce dal talent deve assumere un certo ruolo: è vero, il marketing c’è sempre stato, ma oggigiorno sembra essere l’unica cosa importante per questa discografia agonizzante. Mi sembra che l’autenticità di chi scrive e canta le proprie canzoni non sia quasi presa in considerazione da questo tipo di format, di conseguenza ci saranno magari cantautori originali in giro che non ascolteremo mai. Oggi attraverso internet ci sono nuovi canali per esprimere altre forme di musica. E’ un mondo più complesso, con più stimoli . Il problema è che l’inflazione della musica porta alla sua svalutazione (come accade in economia con la moneta) e la gente si trova a non saper più cosa scegliere non essendo valorizzati gli artisti di qualità.

Enrico Lisei – Foto: Angelo Lavizzari

Abbiamo ascoltato le tue canzoni, letto i tuoi testi. L’ironia, un concetto del quale spesso si abusa ma che racchiude in sé forse la soluzione a tanti dei mali di ogni tempo, la fa da padrona. Brevemente, cosa pensi dell’ironia e in che misura può essere utilizzata come farmaco salvavita?

Shakespeare diceva “Chi non scherza è un gran buffone”. In quello che lui chiama scherzo io ci vedo ironia. Intendo proprio quella capacità di vedere le cose in maniera da non prendersi troppo sul serio perché la vita ha mille sfumature. Non intendo il sarcasmo, che porta con sé l’amarezza di chi è sempre ostico e mai in pace col mondo, ma l’ironia. Affrontare le diverse situazioni in modo ironico denota una capacità critica e riflessiva profonda che può essere usata come vero e proprio farmaco salvavita. La vita per quanto bella, è piena di curve e non avere senso dell’ironia significa aspettarsi sempre un rettilineo dietro la curva con i rischi conseguenti che potete immaginare. Ironia è sintomo di intelligenza… e non lo dico perché la uso io ..eh ..eh ..eh.

Sempre dal tuo profilo, leggiamo delle tue numerose collaborazioni. Tra le tante, ne scegli una da raccontarci?

Posso a raccontarvi l’ultima. In questi anni in cui non facevo dischi ho sempre scritto canzoni. Ogni tanto sentivo diversi editori, tra cui lo storico Ed Curci con cui sono sempre rimasto in ottimi rapporti.

Avevo fatto un provino esagerato di una canzone e dico esagerato perché sembrava già pronto per un vero e proprio disco. Dopo averla inviata all’editore, niente! Una mattina mentre ero a fare una formazione per colleghi psicologi mi arriva una telefonata: “Ciao sono Gianni Morandi, ho sentito la tua canzone e mi piace, la vorrei registrare nel prossimo cd”. Una bella emozione: un grande cantante che canta una mia canzone la quale (nella mia presunzione da cantautore ) non considero una canzonetta estiva. Gianni canta con una naturalezza invidiabile ed è una persona così come la vedi anche sul palco. Ci incontrammo la prima volta, dopo la telefonata in autostrada, in un autogrill per andare insieme nello studio di registrazione che si trovava in Toscana. Lavorammo insieme nello studio e lui, molto umilmente mi chiedeva le note precise della parte melodica. Diceva: “senti Enrico ma qui è così o così ?” intonando due note singole e risposi: “non mi ricordo mi sembra la seconda”, così lui: “Ho capito ma è un salto di decima! Come lo fai tu?” ed io: “Si, ma sei tu Gianni Morandi!”

Nella conferenza stampa, in un gioco di menaggio (n.d.r. “presa in giro”, per i non liguri), lui raccontò che la canzone la cantavo meglio io, e io dissi che lui non la faceva proprio bene.

Quando arrivammo allo studio mi presentò al fonico come l’Enrico della canzone Canzoni stonate, io rimasi spiazzato e il fonico mi chiedeva cose a riguardo, fu divertente. Questo menaggio è tipico di Gianni, in una competizione continua, sana. Mi raccontò che questo tipo di gioco si era abituato a farlo con l’amico mai dimenticato Lucio Dalla.

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Buio Pesto a Loano

Il palco di Buio Pesto a Loano

Domani, Sabato 6 Luglio, si terrà il concerto di Buio Pesto a Loano (SV), nell’ambito del Tour 2019.

Il gruppo si esibirà al Giardino del Principe, alle ore 21 e come sempre sarà ad ingresso gratuito.

Il repertorio prevede l’esecuzione delle canzoni più note (recenti e passate), più due canzoni nuove: la cover di “SOLDI” di Mahmood, vincitore del Festival di Sanremo 2019 e “MISSIONE LUNA” che sarà la canzone principale del prossimo omonimo film della band ligure, in uscita nei cinema nel 2020.
Molte altre le sorprese, tra cui un video sull’utilizzo del dialetto “zeneize” e uno dedicato a chi ama gli animali.

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