Intervista a Roberto Doati (2/3)

Roberto Doati – Foto: Diana Lapin

Veniamo a una domanda, solo apparentemente, banale: le modalità di avvicinamento alla musica elettronica da parte di un giovane negli anni ’70, rispetto a uno dei giorni nostri, presentano differenze. Secondo lei, modalità a parte, c’è un denominatore comune tra le due situazioni? 

Penso che il termine “modalità a parte” nella sua domanda voglia fare riferimento all’aspetto tecnico, che è quello che ho già descritto prima: stiamo parlando di un’applicazione, quella musicale, che fu tra le prime ad essere utilizzata nell’ambito dell’informatica, dopo quella bellica naturalmente, che è stata la prima ragione per la costruzione dei cosiddetti computer.
Nelle arti possiamo affermare che la musica è stata la prima a utilizzare questa tecnologia.
Quindi è un po’ difficile escludere questo aspetto perché, come dicevo prima, nella seconda metà degli anno ’70 si era già abbastanza diffusa la tecnologia digitale anche se un numero molto ristretto di persone rispetto a quello che è oggi iniziava a utilizzarla, occorreva ancora tempo prima che da questa tecnologia possa nascere un linguaggio.
Faccio un esempio semplice per farmi capire meglio: quando è nato il cinema, se guardate le prime pellicole alla fine dell’800, che cosa sono?
Non sono altro che delle riprese, quasi sempre realizzate in teatri di posa cioè sono delle riprese di quello che una volta era il teatro.
Il cinema ha impiegato diversi anni prima di poter essere concepito ed elaborato come linguaggio.
La stessa cosa è avvenuta con la musica digitale: facciamo riferimento alla musica elettronica degli anni ‘50, quindi a una musica che utilizza hardware analogico e ci troviamo in una posizione analoga, nel senso che cambia lo strumento, cambia il mezzo ma i principi compositivi rimangono gli stessi.
C’è l’idea che il compositore possa estendere la sua azione, non solo mettendo insieme delle note ma collegando gli atomi che compongono queste note.
Uno slogan degli anni ‘50 sulla musica elettronica diceva: “Grazie alla musica elettronica adesso potremmo non solo comporre con i suoni, ma comporre anche i suoni”.
Quindi sarebbe come se un compositore dovesse scrivere per orchestra senza dare per scontato di avere a disposizione violini, viole, violoncelli, ecc ecc. ma di dover ogni volta costruirsi uno strumento.
Si è dato vita ad un linguaggio – dopo quasi un secolo, se lo calcoliamo dal secondo dopoguerra – della musica elettronica o meglio sarebbe definirla come la chiamiamo noi del settore “musica elettroacustica”, comprendendo con questo termine non solo suoni prodotti dalla sintesi del suono ma anche suoni acustici, suoni di strumenti più o meno elaborati che siano.
Dal punto di vista quindi del linguaggio, oggi un giovane che comincia a occuparsi di musica elettronica si trova già di fronte un repertorio abbastanza vasto, certo non comparabile a quello di una musica realizzata con strumenti acustici, però già sufficiente per avere molti punti di riferimento.
E poi c’è l’influenza degli altri linguaggi. Oggi, nella maggior parte dei casi, se non ci si rivolge appunto ai cosiddetti specialisti o addetti ai lavori, quando si usa il termine “musica elettronica” si pensa a una musica fortemente influenzata dal mondo pop, inteso in senso ampio, quindi di tutti i generi musicali che non appartengono alla musica classica.
La musica elettronica degli anni ‘50 nasce come un’estensione del pensiero musicale classico,
un modo di pensare la musica che ha dei riferimenti, per quanto minimi, con la musica del passato.
Intendo dire che nella seconda metà del ‘900, la musica elettronica ha rappresentato uno dei diversi modi, forse il più importante, per rinnovare il linguaggio musicale classico, diventando poi quello che normalmente si chiama “contemporaneo”.
La maggior parte delle persone a cui dici oggi: “Faccio musica elettronica” invece pensa a una musica che sia di sostegno ad una danza oppure che sia di sottofondo a un’immagine sottraendo così alla musica elettroacustica la sua autonomia di linguaggio.
Diciamo che, oggigiorno, un giovane che si voglia avvicinare alla musica elettronica e lo faccia attraverso i corsi dei conservatori italiani, si trova davanti una generazione di docenti, la mia, e quella dei miei allievi, ovvero di tutti i docenti che oggi hanno circa 40 anni, provenienti dalle esperienze di Stockhausen, Berio, Cage.
Non so cosa succederà quando questa classe di docenti lascerà il posto alle nuove generazioni
E’ molto cambiato anche il modo di fruire questa musica, è cambiata la risposta della società: la musica elettronica una volta era considerata sperimentazione, ricerca, ma le veniva attribuito comunque un valore culturale alto anche a volte non immediatamente comprensibile.
Oggi, come dicevo, il termine “musica elettronica” si utilizza in ambienti e contesti sociali molto diversi, per cui chi continua a fare musica come faccio io, non appartiene neanche più come una volta a una nicchia di compositori, sperimentatori, ricercatori, perché giustamente poi a una certa età cosa si vuol ricercare e sperimentare, se non hai ancora capito cosa fare dopo i primi anni di sperimentazione, non c’è più niente da capire.
Per cui la musica elettroacustica dei compositori che appartengono alla mia generazione, rientra nell’ambito della cosiddetta cosiddetta musica contemporanea, un nome molto generico che non vuol dire assolutamente niente.

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