Enzo Paci, attore genovese, incontra TrallalerOnline

Dalla comicità irresistibile dei suoi personaggi, a fiction, teatro e cinema.
Enzo Paci, attore genovese classe 1973, formato alla Scuola del Teatro Stabile di Genova, racconta un po’ di sé a TrallalerOnline.

Enzo Paci, il commissario Bacigalupo nella fiction “Blanca”

Ciao Enzo, è bello trovarti qui. Pronto per la prima domanda?

Certamente!

Allora iniziamo: chi è Enzo Paci?

Enzo è un ragazzo determinato che ha creduto nel suo sogno e continua a portarlo avanti.

Parliamo di Blanca, la fiction trasmessa recentemente da Rai1, nella quale interpreti il commissario Bacigalupo del commissariato di Genova San Teodoro.
Non hai caricato molto il tuo personaggio con l’accento genovese, sei riuscito a mediare, a non diventare una macchietta.

Va detto che il teatro genovese non ha una tradizione riconosciuta a livello almeno nazionale. Oggi si riconosce Govi ma non il teatro genovese in toto, almeno non tanto quanto la tradizione teatrale napoletana, veneta, siciliana e così via.
Inoltre gli attori genovesi non sono molti e qui vorrei citare il film per la televisione su Fabrizio De André: trovare un interprete che potesse ricordare fisicamente De André e che fosse anche genovese non era per niente facile. Quindi uno si trova a un bivio: se effettuare un’operazione di mimesi e quindi imitativa, col rischio di farlo male anche in virtù del fatto che i tempi televisivi di fiction non sono quelli di un film, oppure scegliere attori somiglianti ma che magari hanno una recitazione che non si avvicina per nulla alla cadenza genovese.

Quando si realizza una fiction si girano tante scene in un giorno, mentre in un film c’è l’agio di potersi dedicare con più precisione alla recitazione perché il tempo a disposizione è maggiore. In un meccanismo così stringente come quello delle fiction, è difficile.
In più c’è da dire che la maggior parte delle produzioni sono romane. Probabilmente se quella di De Andrè fosse stata un’operazione nata in Liguria si sarebbe probabilmente lavorato in modo diverso, fermo restando che – ribadisco – il dialetto genovese così poco usato nella narrazione teatrale o filmica, se fatto fino in fondo, non può che risultare una caratterizzazione: saremmo sempre un po’ paragonati al Gabibbo di Striscia.
Quindi, ho cercato come hai detto bene tu, di mediare. Soprattutto nei momenti di tensione era meglio vigilare molto sulla cadenza perché se senti “uno che parla un po’ così” (qui Paci accentua la cadenza genovese)…arriva almeno un sorrisetto.
Diciamo che ho usato il genovese maggiormente nella commedia e meno nella tensione.
E poi noi genovesi non parliamo neanche così, il nostro accento è molto più mitigato ma risulta grossolano per quelli che provengono da fuori.

Parliamo del lavoro che hai compiuto per interpretare una parte così diversa da un Mattia Passadore o da un altro dei tuoi divertentissimi personaggi, una parte che richiedeva comunque una grande cura come anche la tua interpretazione dell’operaio dell’Italsider nel film su Guido Rossa (Guido, l’uomo che sfidò le brigate rosse – regia di B. Ferrara 2015)

Mi sono rivisto con piacere, era la storia di Guido Rossa. Si trattava di un film girato con una certa scarsità di mezzi con un regista – Beppe Ferrara – davvero capace di raccontare una storia così importante e drammatica.

E adesso a cosa stai lavorando?

Adesso sto aspettando che esca un’altra serie che si intitola Impero, uscirà in primavera su Sky ed è una serie televisiva sul mondo del calcio, in particolare ambientata nel mondo dei procuratori calcistici. Io interpreto uno di questi procuratori, sicuramente il meno brillante di tutti; un ruolo non di primaria importanza ma, secondo me, gustoso.

Inoltre tra qualche giorno inizio una nuova serie televisiva dove faccio un cameo…una parte piccola mi piace definirla più che un cameo perché i camei li fanno gli attori importanti!
Faccio questa nuova serie con Lillo del duo Lillo e Greg, la serie si intitola Posaman. In ultimo una piccola anticipazione: un film con Marco Risi. Insomma, sto cercando di lavorare il più possibile.

E in teatro?

In teatro porto sempre avanti il mio progetto che è I soliti mostri, lo spettacolo che ho scritto insieme a Matteo Monforte con le musiche di Pippo Lamberti. In scena sono con Romina Uguzzoni che è mia moglie e intanto sto preparando il terreno per uno spettacolo nuovo per l’estate.

Parliamo un po’ di questi personaggi straordinari che hai messo a punto, come Mattia Passadore.
Mi dici qualcosa sulla tua fase creativa riguardo questi personaggi che vedo un po’ come un’esagerazione di individui reali?

Cerco – nella scrittura – di sfidare la creatività un po’ come quando uno dice di aver perso un elefante: ma come si fa a perdere un elefante? E ancora: perché uno ha perso un elefante?
Il segreto sta un po’ nel non facilitarsi la vita, come succede nella nostra realtà comune. Quando uno ha un problema, probabilmente per risolverlo mette in atto la creatività e così, quando lavoro a un nuovo personaggio, in parte cerco di mettermi in difficoltà.

Per tornare al tuo personaggio di Mattia Passadore, c’è un episodio veramente divertente, quello dell’orologio a cucù

L’orologio a cucù è un oggetto desueto, che si trova nelle case delle zie e delle nonne.
Mi ero ispirato a una scena di Pulp Fiction diventata famosa, nella quale un soldato dà a Bruce Willis l’orologio, dopo averlo portato nell’ano per mesi, dicendogli: “E ora questo orologio…è tutto tuo!”.
Così mi sono ispirato a quell’episodio e ho scritto il pezzo.
Questo per dirti appunto che io faccio questo tipo di operazione: mi metto in difficoltà perché, dopo che hai perso le cose usuali che so il cellulare, l’orologio come può succedere a una persona qualsiasi, non puoi che andare in direzione dell’assurdo e ed ecco il motivo della scelta del cucù. Per quanto riguarda invece le caratterizzazioni e gli altri aspetti dei personaggi – non vorrei citarti le fonti sbagliate – ma c’è uno scrittore americano che si chiama Harold Blum, esperto di Shakespeare sul quale ha scritto libri bellissimi che dice: “Quanto più Shakespeare si allontana dagli esseri umani, tanto più li trova”; anche Fantozzi non è un essere umano vivente ma Paolo Villaggio gli fa vivere un’umanità straordinaria.
Pensiamo ancora, ad esempio, all’amore tra Romeo e Giulietta che arriva anche a tragiche conclusioni: uno leggendolo potrebbe dire: “Eh, è inverosimile!” poi magari leggi la cronaca e ti accorgi di quanto invece sia una storia possibile.

Nel teatro, se la cerchi c’è la verità e ognuno può essere chi vuole, se vuole. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo. Una delle cose che mi sento dire spesso è: “Mio figlio vuole fare teatro, infatti è un bel bugiardo, sa raccontare bene le bugie…”
Invece io penso che la recitazione non abbia a che fare nulla con le bugie e invece ne abbia molto con la verità perché noi per mettere in moto – e qui sta il paradosso del teatro – una bugia detta bene, dobbiamo ricorrere alla verità, che è nascosta grazie alle maschere teatrali. E’ l’escamotage del teatro: la gente non sa quello che penso.

Se uno interpreta un assassino, non è che debba essere tale e in questo troviamo l’importanza della recitazione.
In un certo senso in noi risiede un po’ tutto il mondo e a volte noi stessi, quasi senza rendercene conto, facciamo del male a qualcuno.

Magari siamo a pranzo con la nostra famiglia e stiamo tutto il tempo a chattare o giocare con il cellulare e pensi: “Non sto facendo male a nessuno, sto solo giocando un po’”.
In realtà in quel momento non sei in contatto con nessuno e già questo è fare male.
Un attore deve sapersi usare: è chiaro che io non ho mai ucciso nessuno però, magari e se sono sincero con me stesso, ho desiderato tante volte di ammazzare qualcuno e senza usare metafore. Il pubblico completa questa ricerca di verità perché fa parte dello spettacolo, non è passivo.

In teatro il pubblico è attivo e completa la verità dell’attore che spesso diventa un oggetto proiettivo sul quale il pubblico proietta appunto il proprio punto di vista.
Il teatro è una realtà pornografica perché, a differenza del cinema dove è la macchina da presa che ti viene a pescare, nel teatro l’attore ti dice: “Vieni che ti faccio vedere quanto so soffrire, quanto sono felice, quanto so essere disperato”.

Per chi come me fa teatro, è solo un piacere il poterlo fare e con questo non voglio dire che non si debbano superare degli imbarazzi e, a tal proposito, ti dico che poco tempo fa mi avevano proposto un ruolo in teatro dove avrei dovuto esibirmi anche a torso nudo, mimare degli amplessi e via dicendo.

Ti confesso che dover recitare in una parte del genere, in teatro, mi faceva sentire in imbarazzo così ho rinunciato.
Questa cosa denuncia anche il fatto che a volte mi sento a disagio con il mio corpo, se non quando faccio il comico.

Sul comico riesco a mettermi in ridicolo con una gioia infinita, se invece devo rappresentare la mia sessualità con questo corpo, un po’ mi imbarazza.
Probabilmente se si trattasse di un lavoro cinematografico riuscirei a farlo con più agio perché non c’è il pubblico e poi lo fai una, due volte davanti alla macchina da presa, giusto il tempo di girare la scena.

Enzo Paci insegnante di teatro?

Sì, certo, almeno ci provo ma fortunatamente non ci riesco perché devo sempre lavorare. A parte gli scherzi, mi capita di tenere dei corsi ma sento che ancora devo fare e imparare tante cose…

Come hai vissuto l’esperienza su un set come quello di Blanca?
La prima settimana non è stata facile, anche perché quando sbagli si blocca tutto un meccanismo fatto di trenta, quaranta persone quindi, finché non entri nell’ordine di idee che anche sbagliare fa parte del lavoro e che, in fondo, non cambia nulla rispetto anche ad altre produzioni più piccole, allora soffri un po’ la pressione.
Trascorsi però i primi giorni mi sono sentito meglio, anche grazie alle persone e ai colleghi che mi hanno fatto sentire a mio agio.
E’ stata per me una condizione lavorativa e umana ideale.

Qualche curiosità: gli interni di Blanca dove sono stati girati?Quasi tutti in nei teatri di posa della Lux Vide, a Formello.

Cosa vuoi fare da grande?

Il pensionato! (ride)

Adesso cosa farai?

Adesso vado a cenare, stasera pollo con i peperoni. (Lo dice come Mattia Passadore, impossibile non ridere!)

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Due chiacchiere con…Francesco Giannico

Francesco Giannico

Chi è Francesco Giannico?

Sono un musicista elettroacustico, un web designer e un video artista. Ho evidentemente diversi interessi (forse troppi) ma non sono solo una parte del mio lavoro, rappresentano una componente importante del mio modo di sentire la vita in generale.

Negli ultimi anni ho cercato di raccogliere un po’ le fila del concetto di paesaggio sonoro che ho sviluppato nel corso del tempo. Infatti ha diversi campi di applicazione ma su questo tanto è stato raccontato anche passando da diverse esperienze, come quella dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori che è stata forse l’associazione (nasce prima come collettivo) che ho contribuito a far nascere assieme ad altri sound artist italiani e che più ha influito sulla mia produzione di alcuni anni fa.

Tutte le esperienze che si sono succedute negli anni hanno sicuramente cambiato la mia idea di paesaggio sonoro e di come si possa lavorare con esso in diverse modalità. Dai workshop alle installazioni, passando per le performance e a tantissime altre situazioni, devo dire che ho potuto lavorare assiduamente su un concetto ampio e sfuggevole come il soundscape per riportarlo ad una dimensione che a me interessa davvero: mi piace che esso sia una chiave non solo per aprirsi a nuovi ascolti ma anche per introdurre argomenti nuovi ad esso collegati. Spesso non ci si rende conto di come questo tema racchiuda al proprio interno una ricchezza di legami con altre questioni. Si tratta di un argomento politicamente attivo, perché permette di aprire delle porte su tematiche inaspettate, su degli ambiti che altrimenti alcuni difficilmente seguirebbero, quindi da questo punto di vista mi ritengo molto felice di aver scelto questa strada.

L’ecologia del suono per Francesco Giannico

L’ecologia del suono è appunto il macro-tema all’interno del quale possiamo discorrere di acustica del paesaggio sonoro, che è un elemento misurabile in quanto elemento fisico, rappresenta quindi evidentemente una componente più materica; c’è poi una parte più legata alla psicoacustica, alla percezione acustica che abbiamo del mondo e a come questa influenzi la nostra vita, sia da un punto di vista prettamente umorale sia da un punto di vista fisico. L’inquinamento acustico è la manifestazione più eclatante di come i suoni possano cambiare il nostro benessere psicofisico.

Cosa fai adesso?

Da qualche anno ormai sono un libero professionista, lavoro con la mia partita iva in una serie di ambiti: uno è quello del sound design, motivo per cui ci siamo incontrati per questa intervista. Ci sono poi altri ambiti ai quali sono molto legato, perché sono connessi alla mia natura un po’ da “nerd” del mondo informatico come il web design o il web marketing e tutto ciò che riguarda la tecnologia e il mondo della comunicazione. 

Per anni ho lavorato su tutti questi temi non legandoli gli uni agli altri perché riferiti a diversi ambiti professionali e anche se vuoi a livello di committenza le direzioni divergevano nettamente. Dopo tanti anni ho deciso finalmene di unire i puntini della mia vita lavorativa aprendo un mio studio personale, a Conversano, nella città in cui vivo dove allargherò tutte queste attività a percorsi formativi sugli stessi temi. La formazione in effetti è l’altra mia grande passione.

Cos’è per te il soundscaping?

In parte ti ho risposto prima. Il soundscaping è un’attività che ha dei risvolti estremamente interessanti, perché si profila come una chiave di lettura del mondo, della quale dovremmo avere più considerazione.

Il senso è quello di non pensare alle attività legate al tema del soundscape come un momento per appassionati, tecnofili, o espertissimi del settore, ma di considerarlo alla stregua di una passeggiata tra amici: fare soundwalking con amici, conoscenti o un gruppo di studio, per conoscere meglio il proprio territorio, è una pratica estremamente arricchente, al pari un po’ delle passeggiate di quartiere praticate da alcuni gruppi di architetti visionari e sociologi. Anche in questo caso, in quanto musicologi o semplicemente appassionati di soundscape, la soundwalk può restituire una cartina tornasole di una comunità, di una città, di un territorio e delineare un quadro estremamente interessante di quelli che possono essere dei punti di forza o delle criticità. E’ quindi  uno strumento politico molto potente, se utilizzato in una chiave di democrazia partecipata. Non dimentichiamo inoltre che non rimane un’attività fine a se stessa, chi fa soundscaping spesso rielabora elettronicamente questo materiale audio realizzando ad esempio, live performance, installazioni o archivi digitali e produzioni musicali.

Qualunque cosa venga prodotta dalla nostra raccolta di materiali audio, ha dei risvolti incredibili non relativi solo all’output della produzione in se ma, indirettamente, coinvolge le persone di un luogo, di una città, di un territorio di qualunque zona e può quindi può innescare dei processi partecipati su argomenti estremamente complessi da discutere e condividere in condizioni normali. Da questo punto di vista, ci vedo uno strumento politicamente molto potente ma che deve ancora essere compreso appieno.

Produzioni discografiche e non..

Si, sono abbastanza attivo dal punto di vista discografico ma non riesco a produrre più di un disco all’anno. Sento di dover dedicare una certa quantità di tempo per raggiungere i risultati che desidero e lavorare in maniera adeguata sulla qualità della produzione.

Sicuramente gli ultimi tre anni sono stati abbastanza ricchi: ho prodotto infatti tre album che hanno delineato un tipo di percorso nuovo e che mi piacerebbe mantenere rispetto all’estetica delle mie produzioni. Si tratta di dischi come “Misplaced” uscito per l’etichetta italiana “Adesso” e poi c’è “Destroyed by madness”, disco che si discosta dal punto di vista della composizione rispetto ai precedenti; se confrontato con il primo, c’è più pianoforte ma s’inserisce anch’esso nel solco del concetto di cambiamento di utilizzo del soundscape all’interno delle produzioni musicali. Nella prima fase della produzione dei miei dischi ho dato un’attenzione non da poco all’elemento “field recording”. Ad esempio, il disco “Metrophony”, che ho inciso qualche anno fa, era una sorta di studio “non dichiarato” sul paesaggio sonoro della Metro B di Roma, infatti l’album era costituito da una traccia unica della durata del percorso della metro. Negli ultimi dischi il paesaggio sonoro viene trattato diversamente, inizialmente ero molto analitico e documentavo ogni cosa, ora è un attegiamento che mantengo soprattutto in alcuni lavori site-specific su commissione, come all’interno di alcune residenze artistiche. La geografia del paesaggio è più sfuggente per l’ascoltatore dei miei ultimi album dove ha meno riferimenti e deve affidarsi maggiormente alle proprie orecchie e al proprio cuore per proseguire l’ascolto. Avere le mani libere dal punto di vista dell’estetica musicale che tu stesso ti sei imposto ti lascia sicuramente più spazio per il cambiamento.

Quello che non ti chiedo e vorresti ti fosse chiesto?

Nessuno per esempio mi ha mai chiesto che cosa ce ne faremo mai di tutti questi suoni che costantemente raccogliamo. In effetti potrei avere io stesso difficoltà a rispondere.

A parte gli scherzi, c’è una grande quantità di persone che registra costantemente ogni cosa, sempre di più visto che i mezzi oggi lo permettono.

Il punto però forse sarebbe capire cosa si sta registrando e perché, se lo si fa in ottica documentativa allora forse varrebbe la pena porsi alcuni interrogativi rispetto alla conservazione di questo materiale. Ancora oggi gli archivi digitali non hanno modelli univoci di conservazione a differenza dei vecchi e polverosi archivi cartacei istituzionali. Certo questa visione documentaria un po’ anarcoide ha da un lato favorito il proliferare di piattaforme di ogni tipo per la raccolta di alcuni specifici materiali audio ma in alcuni casi ci sono state delle spiacevolissime sorprese, difatti alcune di queste piattaforme hanno chiuso all’improvviso i battenti vanificando il lavoro di centinaia di utenti appassionati. E non parliamo sempre di siti da quattro soldi ma anche di progetti finanziati da enti come la BBC, mi riferisco in particolare al progetto intitolato “Save our Sounds” di qualche anno fa.

Capite bene che, se persino un archivio della BBC non resiste alle problematiche del digitale, allora c’è da porsi dei grandi interrogativi per il futuro.

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