Enzo Paci, attore genovese, incontra TrallalerOnline

Dalla comicità irresistibile dei suoi personaggi, a fiction, teatro e cinema.
Enzo Paci, attore genovese classe 1973, formato alla Scuola del Teatro Stabile di Genova, racconta un po’ di sé a TrallalerOnline.

Enzo Paci, il commissario Bacigalupo nella fiction “Blanca”

Ciao Enzo, è bello trovarti qui. Pronto per la prima domanda?

Certamente!

Allora iniziamo: chi è Enzo Paci?

Enzo è un ragazzo determinato che ha creduto nel suo sogno e continua a portarlo avanti.

Parliamo di Blanca, la fiction trasmessa recentemente da Rai1, nella quale interpreti il commissario Bacigalupo del commissariato di Genova San Teodoro.
Non hai caricato molto il tuo personaggio con l’accento genovese, sei riuscito a mediare, a non diventare una macchietta.

Va detto che il teatro genovese non ha una tradizione riconosciuta a livello almeno nazionale. Oggi si riconosce Govi ma non il teatro genovese in toto, almeno non tanto quanto la tradizione teatrale napoletana, veneta, siciliana e così via.
Inoltre gli attori genovesi non sono molti e qui vorrei citare il film per la televisione su Fabrizio De André: trovare un interprete che potesse ricordare fisicamente De André e che fosse anche genovese non era per niente facile. Quindi uno si trova a un bivio: se effettuare un’operazione di mimesi e quindi imitativa, col rischio di farlo male anche in virtù del fatto che i tempi televisivi di fiction non sono quelli di un film, oppure scegliere attori somiglianti ma che magari hanno una recitazione che non si avvicina per nulla alla cadenza genovese.

Quando si realizza una fiction si girano tante scene in un giorno, mentre in un film c’è l’agio di potersi dedicare con più precisione alla recitazione perché il tempo a disposizione è maggiore. In un meccanismo così stringente come quello delle fiction, è difficile.
In più c’è da dire che la maggior parte delle produzioni sono romane. Probabilmente se quella di De Andrè fosse stata un’operazione nata in Liguria si sarebbe probabilmente lavorato in modo diverso, fermo restando che – ribadisco – il dialetto genovese così poco usato nella narrazione teatrale o filmica, se fatto fino in fondo, non può che risultare una caratterizzazione: saremmo sempre un po’ paragonati al Gabibbo di Striscia.
Quindi, ho cercato come hai detto bene tu, di mediare. Soprattutto nei momenti di tensione era meglio vigilare molto sulla cadenza perché se senti “uno che parla un po’ così” (qui Paci accentua la cadenza genovese)…arriva almeno un sorrisetto.
Diciamo che ho usato il genovese maggiormente nella commedia e meno nella tensione.
E poi noi genovesi non parliamo neanche così, il nostro accento è molto più mitigato ma risulta grossolano per quelli che provengono da fuori.

Parliamo del lavoro che hai compiuto per interpretare una parte così diversa da un Mattia Passadore o da un altro dei tuoi divertentissimi personaggi, una parte che richiedeva comunque una grande cura come anche la tua interpretazione dell’operaio dell’Italsider nel film su Guido Rossa (Guido, l’uomo che sfidò le brigate rosse – regia di B. Ferrara 2015)

Mi sono rivisto con piacere, era la storia di Guido Rossa. Si trattava di un film girato con una certa scarsità di mezzi con un regista – Beppe Ferrara – davvero capace di raccontare una storia così importante e drammatica.

E adesso a cosa stai lavorando?

Adesso sto aspettando che esca un’altra serie che si intitola Impero, uscirà in primavera su Sky ed è una serie televisiva sul mondo del calcio, in particolare ambientata nel mondo dei procuratori calcistici. Io interpreto uno di questi procuratori, sicuramente il meno brillante di tutti; un ruolo non di primaria importanza ma, secondo me, gustoso.

Inoltre tra qualche giorno inizio una nuova serie televisiva dove faccio un cameo…una parte piccola mi piace definirla più che un cameo perché i camei li fanno gli attori importanti!
Faccio questa nuova serie con Lillo del duo Lillo e Greg, la serie si intitola Posaman. In ultimo una piccola anticipazione: un film con Marco Risi. Insomma, sto cercando di lavorare il più possibile.

E in teatro?

In teatro porto sempre avanti il mio progetto che è I soliti mostri, lo spettacolo che ho scritto insieme a Matteo Monforte con le musiche di Pippo Lamberti. In scena sono con Romina Uguzzoni che è mia moglie e intanto sto preparando il terreno per uno spettacolo nuovo per l’estate.

Parliamo un po’ di questi personaggi straordinari che hai messo a punto, come Mattia Passadore.
Mi dici qualcosa sulla tua fase creativa riguardo questi personaggi che vedo un po’ come un’esagerazione di individui reali?

Cerco – nella scrittura – di sfidare la creatività un po’ come quando uno dice di aver perso un elefante: ma come si fa a perdere un elefante? E ancora: perché uno ha perso un elefante?
Il segreto sta un po’ nel non facilitarsi la vita, come succede nella nostra realtà comune. Quando uno ha un problema, probabilmente per risolverlo mette in atto la creatività e così, quando lavoro a un nuovo personaggio, in parte cerco di mettermi in difficoltà.

Per tornare al tuo personaggio di Mattia Passadore, c’è un episodio veramente divertente, quello dell’orologio a cucù

L’orologio a cucù è un oggetto desueto, che si trova nelle case delle zie e delle nonne.
Mi ero ispirato a una scena di Pulp Fiction diventata famosa, nella quale un soldato dà a Bruce Willis l’orologio, dopo averlo portato nell’ano per mesi, dicendogli: “E ora questo orologio…è tutto tuo!”.
Così mi sono ispirato a quell’episodio e ho scritto il pezzo.
Questo per dirti appunto che io faccio questo tipo di operazione: mi metto in difficoltà perché, dopo che hai perso le cose usuali che so il cellulare, l’orologio come può succedere a una persona qualsiasi, non puoi che andare in direzione dell’assurdo e ed ecco il motivo della scelta del cucù. Per quanto riguarda invece le caratterizzazioni e gli altri aspetti dei personaggi – non vorrei citarti le fonti sbagliate – ma c’è uno scrittore americano che si chiama Harold Blum, esperto di Shakespeare sul quale ha scritto libri bellissimi che dice: “Quanto più Shakespeare si allontana dagli esseri umani, tanto più li trova”; anche Fantozzi non è un essere umano vivente ma Paolo Villaggio gli fa vivere un’umanità straordinaria.
Pensiamo ancora, ad esempio, all’amore tra Romeo e Giulietta che arriva anche a tragiche conclusioni: uno leggendolo potrebbe dire: “Eh, è inverosimile!” poi magari leggi la cronaca e ti accorgi di quanto invece sia una storia possibile.

Nel teatro, se la cerchi c’è la verità e ognuno può essere chi vuole, se vuole. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo. Una delle cose che mi sento dire spesso è: “Mio figlio vuole fare teatro, infatti è un bel bugiardo, sa raccontare bene le bugie…”
Invece io penso che la recitazione non abbia a che fare nulla con le bugie e invece ne abbia molto con la verità perché noi per mettere in moto – e qui sta il paradosso del teatro – una bugia detta bene, dobbiamo ricorrere alla verità, che è nascosta grazie alle maschere teatrali. E’ l’escamotage del teatro: la gente non sa quello che penso.

Se uno interpreta un assassino, non è che debba essere tale e in questo troviamo l’importanza della recitazione.
In un certo senso in noi risiede un po’ tutto il mondo e a volte noi stessi, quasi senza rendercene conto, facciamo del male a qualcuno.

Magari siamo a pranzo con la nostra famiglia e stiamo tutto il tempo a chattare o giocare con il cellulare e pensi: “Non sto facendo male a nessuno, sto solo giocando un po’”.
In realtà in quel momento non sei in contatto con nessuno e già questo è fare male.
Un attore deve sapersi usare: è chiaro che io non ho mai ucciso nessuno però, magari e se sono sincero con me stesso, ho desiderato tante volte di ammazzare qualcuno e senza usare metafore. Il pubblico completa questa ricerca di verità perché fa parte dello spettacolo, non è passivo.

In teatro il pubblico è attivo e completa la verità dell’attore che spesso diventa un oggetto proiettivo sul quale il pubblico proietta appunto il proprio punto di vista.
Il teatro è una realtà pornografica perché, a differenza del cinema dove è la macchina da presa che ti viene a pescare, nel teatro l’attore ti dice: “Vieni che ti faccio vedere quanto so soffrire, quanto sono felice, quanto so essere disperato”.

Per chi come me fa teatro, è solo un piacere il poterlo fare e con questo non voglio dire che non si debbano superare degli imbarazzi e, a tal proposito, ti dico che poco tempo fa mi avevano proposto un ruolo in teatro dove avrei dovuto esibirmi anche a torso nudo, mimare degli amplessi e via dicendo.

Ti confesso che dover recitare in una parte del genere, in teatro, mi faceva sentire in imbarazzo così ho rinunciato.
Questa cosa denuncia anche il fatto che a volte mi sento a disagio con il mio corpo, se non quando faccio il comico.

Sul comico riesco a mettermi in ridicolo con una gioia infinita, se invece devo rappresentare la mia sessualità con questo corpo, un po’ mi imbarazza.
Probabilmente se si trattasse di un lavoro cinematografico riuscirei a farlo con più agio perché non c’è il pubblico e poi lo fai una, due volte davanti alla macchina da presa, giusto il tempo di girare la scena.

Enzo Paci insegnante di teatro?

Sì, certo, almeno ci provo ma fortunatamente non ci riesco perché devo sempre lavorare. A parte gli scherzi, mi capita di tenere dei corsi ma sento che ancora devo fare e imparare tante cose…

Come hai vissuto l’esperienza su un set come quello di Blanca?
La prima settimana non è stata facile, anche perché quando sbagli si blocca tutto un meccanismo fatto di trenta, quaranta persone quindi, finché non entri nell’ordine di idee che anche sbagliare fa parte del lavoro e che, in fondo, non cambia nulla rispetto anche ad altre produzioni più piccole, allora soffri un po’ la pressione.
Trascorsi però i primi giorni mi sono sentito meglio, anche grazie alle persone e ai colleghi che mi hanno fatto sentire a mio agio.
E’ stata per me una condizione lavorativa e umana ideale.

Qualche curiosità: gli interni di Blanca dove sono stati girati?Quasi tutti in nei teatri di posa della Lux Vide, a Formello.

Cosa vuoi fare da grande?

Il pensionato! (ride)

Adesso cosa farai?

Adesso vado a cenare, stasera pollo con i peperoni. (Lo dice come Mattia Passadore, impossibile non ridere!)

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Due chiacchiere con…Francesco Giannico

Francesco Giannico

Chi è Francesco Giannico?

Sono un musicista elettroacustico, un web designer e un video artista. Ho evidentemente diversi interessi (forse troppi) ma non sono solo una parte del mio lavoro, rappresentano una componente importante del mio modo di sentire la vita in generale.

Negli ultimi anni ho cercato di raccogliere un po’ le fila del concetto di paesaggio sonoro che ho sviluppato nel corso del tempo. Infatti ha diversi campi di applicazione ma su questo tanto è stato raccontato anche passando da diverse esperienze, come quella dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori che è stata forse l’associazione (nasce prima come collettivo) che ho contribuito a far nascere assieme ad altri sound artist italiani e che più ha influito sulla mia produzione di alcuni anni fa.

Tutte le esperienze che si sono succedute negli anni hanno sicuramente cambiato la mia idea di paesaggio sonoro e di come si possa lavorare con esso in diverse modalità. Dai workshop alle installazioni, passando per le performance e a tantissime altre situazioni, devo dire che ho potuto lavorare assiduamente su un concetto ampio e sfuggevole come il soundscape per riportarlo ad una dimensione che a me interessa davvero: mi piace che esso sia una chiave non solo per aprirsi a nuovi ascolti ma anche per introdurre argomenti nuovi ad esso collegati. Spesso non ci si rende conto di come questo tema racchiuda al proprio interno una ricchezza di legami con altre questioni. Si tratta di un argomento politicamente attivo, perché permette di aprire delle porte su tematiche inaspettate, su degli ambiti che altrimenti alcuni difficilmente seguirebbero, quindi da questo punto di vista mi ritengo molto felice di aver scelto questa strada.

L’ecologia del suono per Francesco Giannico

L’ecologia del suono è appunto il macro-tema all’interno del quale possiamo discorrere di acustica del paesaggio sonoro, che è un elemento misurabile in quanto elemento fisico, rappresenta quindi evidentemente una componente più materica; c’è poi una parte più legata alla psicoacustica, alla percezione acustica che abbiamo del mondo e a come questa influenzi la nostra vita, sia da un punto di vista prettamente umorale sia da un punto di vista fisico. L’inquinamento acustico è la manifestazione più eclatante di come i suoni possano cambiare il nostro benessere psicofisico.

Cosa fai adesso?

Da qualche anno ormai sono un libero professionista, lavoro con la mia partita iva in una serie di ambiti: uno è quello del sound design, motivo per cui ci siamo incontrati per questa intervista. Ci sono poi altri ambiti ai quali sono molto legato, perché sono connessi alla mia natura un po’ da “nerd” del mondo informatico come il web design o il web marketing e tutto ciò che riguarda la tecnologia e il mondo della comunicazione. 

Per anni ho lavorato su tutti questi temi non legandoli gli uni agli altri perché riferiti a diversi ambiti professionali e anche se vuoi a livello di committenza le direzioni divergevano nettamente. Dopo tanti anni ho deciso finalmene di unire i puntini della mia vita lavorativa aprendo un mio studio personale, a Conversano, nella città in cui vivo dove allargherò tutte queste attività a percorsi formativi sugli stessi temi. La formazione in effetti è l’altra mia grande passione.

Cos’è per te il soundscaping?

In parte ti ho risposto prima. Il soundscaping è un’attività che ha dei risvolti estremamente interessanti, perché si profila come una chiave di lettura del mondo, della quale dovremmo avere più considerazione.

Il senso è quello di non pensare alle attività legate al tema del soundscape come un momento per appassionati, tecnofili, o espertissimi del settore, ma di considerarlo alla stregua di una passeggiata tra amici: fare soundwalking con amici, conoscenti o un gruppo di studio, per conoscere meglio il proprio territorio, è una pratica estremamente arricchente, al pari un po’ delle passeggiate di quartiere praticate da alcuni gruppi di architetti visionari e sociologi. Anche in questo caso, in quanto musicologi o semplicemente appassionati di soundscape, la soundwalk può restituire una cartina tornasole di una comunità, di una città, di un territorio e delineare un quadro estremamente interessante di quelli che possono essere dei punti di forza o delle criticità. E’ quindi  uno strumento politico molto potente, se utilizzato in una chiave di democrazia partecipata. Non dimentichiamo inoltre che non rimane un’attività fine a se stessa, chi fa soundscaping spesso rielabora elettronicamente questo materiale audio realizzando ad esempio, live performance, installazioni o archivi digitali e produzioni musicali.

Qualunque cosa venga prodotta dalla nostra raccolta di materiali audio, ha dei risvolti incredibili non relativi solo all’output della produzione in se ma, indirettamente, coinvolge le persone di un luogo, di una città, di un territorio di qualunque zona e può quindi può innescare dei processi partecipati su argomenti estremamente complessi da discutere e condividere in condizioni normali. Da questo punto di vista, ci vedo uno strumento politicamente molto potente ma che deve ancora essere compreso appieno.

Produzioni discografiche e non..

Si, sono abbastanza attivo dal punto di vista discografico ma non riesco a produrre più di un disco all’anno. Sento di dover dedicare una certa quantità di tempo per raggiungere i risultati che desidero e lavorare in maniera adeguata sulla qualità della produzione.

Sicuramente gli ultimi tre anni sono stati abbastanza ricchi: ho prodotto infatti tre album che hanno delineato un tipo di percorso nuovo e che mi piacerebbe mantenere rispetto all’estetica delle mie produzioni. Si tratta di dischi come “Misplaced” uscito per l’etichetta italiana “Adesso” e poi c’è “Destroyed by madness”, disco che si discosta dal punto di vista della composizione rispetto ai precedenti; se confrontato con il primo, c’è più pianoforte ma s’inserisce anch’esso nel solco del concetto di cambiamento di utilizzo del soundscape all’interno delle produzioni musicali. Nella prima fase della produzione dei miei dischi ho dato un’attenzione non da poco all’elemento “field recording”. Ad esempio, il disco “Metrophony”, che ho inciso qualche anno fa, era una sorta di studio “non dichiarato” sul paesaggio sonoro della Metro B di Roma, infatti l’album era costituito da una traccia unica della durata del percorso della metro. Negli ultimi dischi il paesaggio sonoro viene trattato diversamente, inizialmente ero molto analitico e documentavo ogni cosa, ora è un attegiamento che mantengo soprattutto in alcuni lavori site-specific su commissione, come all’interno di alcune residenze artistiche. La geografia del paesaggio è più sfuggente per l’ascoltatore dei miei ultimi album dove ha meno riferimenti e deve affidarsi maggiormente alle proprie orecchie e al proprio cuore per proseguire l’ascolto. Avere le mani libere dal punto di vista dell’estetica musicale che tu stesso ti sei imposto ti lascia sicuramente più spazio per il cambiamento.

Quello che non ti chiedo e vorresti ti fosse chiesto?

Nessuno per esempio mi ha mai chiesto che cosa ce ne faremo mai di tutti questi suoni che costantemente raccogliamo. In effetti potrei avere io stesso difficoltà a rispondere.

A parte gli scherzi, c’è una grande quantità di persone che registra costantemente ogni cosa, sempre di più visto che i mezzi oggi lo permettono.

Il punto però forse sarebbe capire cosa si sta registrando e perché, se lo si fa in ottica documentativa allora forse varrebbe la pena porsi alcuni interrogativi rispetto alla conservazione di questo materiale. Ancora oggi gli archivi digitali non hanno modelli univoci di conservazione a differenza dei vecchi e polverosi archivi cartacei istituzionali. Certo questa visione documentaria un po’ anarcoide ha da un lato favorito il proliferare di piattaforme di ogni tipo per la raccolta di alcuni specifici materiali audio ma in alcuni casi ci sono state delle spiacevolissime sorprese, difatti alcune di queste piattaforme hanno chiuso all’improvviso i battenti vanificando il lavoro di centinaia di utenti appassionati. E non parliamo sempre di siti da quattro soldi ma anche di progetti finanziati da enti come la BBC, mi riferisco in particolare al progetto intitolato “Save our Sounds” di qualche anno fa.

Capite bene che, se persino un archivio della BBC non resiste alle problematiche del digitale, allora c’è da porsi dei grandi interrogativi per il futuro.

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Intervista con Filippo Destrieri

Filippo Destrieri

Trallaleronline oggi è con Filippo Destrieri, musicista legnanese, sperimentatore e storico collaboratore di Franco Battiato.

Filippo, grazie per aver accettato il nostro invito. Siamo davvero molto felici di poterti intervistare. Ma veniamo subito al sodo:

Chi è Filippo Destrieri?

Questa è una domanda difficile…diciamo che sono uno che ha sempre suonato e poi ha avuto la fortuna straordinaria di conoscere Battiato e collaborare con lui.

Sei molto modesto e concreto ma penso ci sia qualcosa di più come, ad esempio, una collaborazione ventennale con Giusto Pio e lavori con Alice, Giuni Russo, Milva e Juri Camisasca. Non è poco … Ma continuiamo la nostra chiacchierata. Prima di lavorare con Battiato, di cosa ti occupavi?

Giravo l’Europa con un furgone carico di strumenti, Organo Hammond, Leslie, tastiere. Tra queste, il mitico ARP 2600. Il mio fu il primo ad arrivare in Europa. A dire il vero il mio primo synth era uno strumento autocostruito. Era davvero faticoso trasportare tutta quella roba, per non parlare dei problemi di intonazione che avevano quegli strumenti. Magari era estate, facevi il soundcheck in pieno pomeriggio sotto il sole e poi il concerto la sera. Gli strumenti perdevano l’intonazione e poi avevo in bel da fare a recuperarla, gli oscillatori erano sensibili alle variazioni di temperatura e umidità.

Succedeva spesso anche in tour con Franco: l’ARP aveva una vite che allargava e stringeva la tastiera e ogni due brani dovevo intonare nuovamente. Pensare che adesso, in un PC portatile o in un tablet puoi portare con te almeno tre furgoni di strumenti! Facevo musica elettronica, improvvisazioni.

Poi ho incontrato Franco e da lì è iniziata quella che sarebbe stata la musica della mia vita…

Incontrando Battiato hai, naturalmente, lavorato anche con Giusto Pio…

Certo, fu un’altra collaborazione straordinaria. Pio portò alla conoscenza del vasto pubblico un brano come Legione Straniera. Pensa, a proposito di questo brano posso raccontarti un piccolo aneddoto. Una sera, per caso, vidi cinque luci che si muovevano in cielo. Allora pensai fossero UFO. Corsi nel bosco, a quei tempi vivevo in una casa fuori città, sperando di incontrare quelle creature. Non successe nulla, io sono ancora qui ma, quando rientrai in casa, dalle mani mi uscì la linea melodica di Legione Straniera.  Il brano fu sviluppato, oltre che da me, anche dagli stessi Battiato e Pio, fu eseguito in decine di concerti ed ebbe un successo incredibile.

Prendo un disco a caso, Fisiognomica.In esso si sente molto del tuo lavoro: le sequenze asciutte, senza fronzoli, non un suono di più né uno di meno del necessario e poi il grande E ti vengo a cercare.

Sì, il lavoro fu fatto quasi totalmente a casa mia. Battiato mi mandava i pezzi su delle audiocassette, accompagnando la sua voce con una tastierina. In realtà erano solo quattro accordi ma il pezzi erano già belli e pronti, bastava portarne alla luce l’arrangiamento. Con E ti vengo a cercare andò proprio così.

Beh, detta così, la faccenda è molto semplice ma tu sei stato davvero bravo e, devo dire, da come ne parli oggi, anche molto modesto.

No, guarda è proprio così. Tutti abbiamo lavorato a brani straordinari, non c’ero solo io, ma il vero genio era Franco.

Dopo la collaborazione con Battiato, di cosa ti occupi?

Da quando ho smesso di suonare con Franco ho fondato, insieme ad altri amici musicisti, la formazione Equipaggio Sperimentale. Il gruppo costituito, oltre che da me alle tastiere e alla programmazione, da Don Marco Rapelli (voce) prete diocesano di Milano, Alessandro Patanè (chitarre), Ilaria Sironi (flauto) e Paola Molteni (voce), Luigi Belicchi, Alessandro Zenoni e Loris Pilotto hanno realizzato i video che vengono proiettati durante il concerto e Gaia Spreafico cura il sito web del gruppo. La presenza di Don Marco è fondamentale perché lui è un teologo, conoscitore degli aspetti spirituali dei testi di Franco e, quindi, quando canta sa cosa dice. E’ bello sentirlo in E ti vengo a cercare… 

Portiamo in giro per l’Italia un altro nuovissimo tributo a Franco che si intitola “Il Padrone della Voce” https://www.facebook.com/il.padrone.della.voce.

Il titolo la dice lunga… e va anche detto che Battiato fu padrone di una voce straordinaria!

Il repertorio è costituito da 100 brani: possiamo fare quattro concerti con brani tutti diversi, che meglio possono adattarsi alle situazioni dove verranno proposti. Inoltre, nel 2022, ricorrono i quarant’anni de L’arca di Noè, pubblicato nel 1982. Contiamo di preparare un tributo per quest’occasione.

Destrieri e Battiato verso Baghdad

Un ricordo di Battiato

Franco era sempre allegro e, se c’era qualcosa che non mi piaceva o mi faceva arrabbiare diceva: “Filippo…stringi i denti!”

Quando è partito per l’ultimo viaggio, ho avvertito la sua presenza. Sono certo che sia passato di qua a salutarmi.

Grazie Filippo, è stato un piacere incontrarti e conversare con te. Ci vediamo a qualche concerto del tuo Equipaggio!

D’accordo, vi aspettiamo. Un caro saluto ai lettori di Trallaleronline!

Le immagini a corredo della presente intervista sono pubblicate per gentile concessione di Filippo Destrieri.


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Amori Laterali

Carlo Denei e la copertina di “Amori Laterali”

Carlo Denei, autore televisivo, cabarettista e cantautore ci parla dell’uscita del suo nuovo libro “Amori Laterali”.

Intanto vorremmo sapere chi è Carlo Denei

Bè, vi ringrazio per la prima domanda. C’era una barzelletta che raccontavo da ragazzino e parlava di uno studente universitario, cui il professore chiede: «Mi dica, lei come si chiama?»

«Rossi Roberto- risponde sorridendo lo studente. «Ma perché mai ride? – chiede innervosito il docente. «Rido perché la prima domanda è andata bene»

Carlo Denei è un comico, autore televisivo e… cantautore. Cantautore per divertimento, anche perché se lo facessi di lavoro a quest’ora sarei in coda alla Caritas.

Insomma, un uomo di palco che… belin, gli hanno tolto il palco. Eh sì perché questa maledetta pandemia ha ridotto drasticamente tutto. Quando sembra che si ricominci , tac, si richiude. Così qauesta mancanza, o drastica riduzione di teatri ha spinto molti di noi verso altre forme di espressione. Nel mio caso ho prodotto canzoni che poi ho messo su un libro, anche perché ormai il CD non se lo accatta più nessuno. 

Quindi niente CD. Ma allora come funziona il tuo libro?

È un libro-disco. Oppure un disco-libro. Ma è anche un libro-palco. Ora ti spiego: ho deciso di mettere un lato A e un lato B, come in un vecchio vinile, dividendo il libro in due parti ben distinte. Nel lato A c’è la musica, con i testi delle canzoni e qualche aneddoto su come sono nate le canzoni, mentre nel lato B c’è la comicità.

Il sistema per ascoltare i pezzi, vedere i videoclip o le gag comiche è molto semplice. Bisogna scaricare una APP col telefonino (la APP si chiama Vesepia). Poi basta inquadrare i quadratini che si incontrano nel libro (che sono esattamente come quelli del Green pass) e a quel punto si sente la canzone oppure si vede il videoclip. Semplice! 

E perché s’intitola Amori laterali?

Bè, l’idea di intitolare il “disco” Amori laterali parte da un messaggio del mio primogenito che è anche il mio primo fan. A lui faccio ascoltare le mie canzoni appena nate e ne seguo con cura le indicazioni.

Tre anni fa gli avevo mandato via Whatsapp un pezzo ancora acerbo, che oggi è nella raccolta e si chiama Dichiarazione d’amore di un commercialista. La sua risposta era stata: «Bella! Mi piace. Molto originale!». E pochi minuti dopo, aveva aggiunto: «Di solito odio le canzoni che parlano d’amore. Però c’è modo e modo di parlare d’amore: ci sono modi “laterali” davvero interessanti, sottilmente umoristici, ma anche da meditarci su: proprio come questo».

Ecco, l’aggettivo laterale mi ha stuzzicato, al punto da farmi decidere di raccogliere le mie canzoni, dormienti e nuove, che parlassero di amori non convenzionali.

Così ho messo Rocky, la canzone d’amore per un cane abbandonato, La promessa di un uomo malato di ludopatia e della sua donna che lo aspetta, Parlami negli occhi, di una ragazza cieca che incomincia una storia con un ragazzo vedente, Dichiarazione d’amore di un commercialista, di un ragioniere intrappolato nella sua genialità di contabile, che non riesce a rapportarsi con l’altro sesso, fino ad arrivare ad un pezzo che parla di “non amore” e più precisamente di violenza sulle donne .

Bene, sei stato esaustivo! C’è qualcos’altro che vuoi dire ai nostri lettori?

Sì, che ho fatto l’audiolibro. Per i non vedenti e ipovedenti. Tutto letto da me! Sai che divertimento?!… 

Il libro, edito da Erga Edizioni sarà  presentato a Genova in Piazzetta Rostagno – Area archeologica dei Giardini Luzzati, venerdì 4 febbraio 2022 alle ore 18.00  Relatore dell’evento sarà il giornalista Edoardo Meoli. 

Le immagini a corredo di quest’intervista sono pubblicate per gentile concessione di Carlo Denei

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“Bambòcce sensa i euggi” recensione di Stefano Lusito

Stefano Lusito

Genovese, classe 1992, Stefano Lusito è ricercatore presso l’università di Innsbruck, dove si occupa di temi legati soprattutto alla linguistica e dialettologia di ambito ligure.

TrallalerOnline propone oggi una recensione firmata da Lusito – in lingua genovese, con relativa traduzione italiana – che ha come argomento la raccolta di canzoni Bambòcce sensa i euggidi Paolo Besagno.

Reçenscion à “Bambòcce sensa i euggi” de Paolo Besagno

Da quarche meise à sta parte, i naveganti de Internet ch’an l’andio de frequentâ e piattaforme de condivixon de contegnui de muxica – comme iTunes, Spotify e Bandcamp, in azzonta a-o ciù generalista YouTube – peuan gödî de unna neuva arrecuggeita de cansoin in zeneise, pubricâ inte unna colleçion da-o titolo Bambòcce sensa i euggi e firmâ da Paolo Besagno.

L’autô, nasciuo do 1964, o no l’é un prinçipiante inte l’ambiente da muxica inte sta lengua: à parte d’avei collaborou con di atri artisti e d’avei arrangiou e compòsto de cansoin pe conto seu, l’é di anni ch’o rappresenta o direttô artistico da squaddra de trallalero «Giovani canterini di Sant’Olcese», con tutta probabilitæ fra e ciù conosciue into reuo de quelle ancon in attivitæ a-a giornâ d’ancheu, pe-a seu itineransa e pe-i premmi reçevui.

Pe quante o Besagno o dispoñe de unna longa esperiensa inte l’ambito da canson (ò, pe dîghe ciù ben, inta qualitæ de canto) ciù sccettamente «popolare», e neuve compoxiçioin compreise inte l’arrecuggeita dan à divedde un ligammo assæ lasco con quell’universo: de referense a-o spaçio zeneise s’attreuvan solo inte Genovacolor, un agreman a-a primma çittæ da Liguria ch’o piggia inspiraçion da-a famosa Litania de Caproni (donde treuva spaçio, giust’aponto, unna curta esecuçion de trallalero), e inte Voxe de Ciaê, unna descriçion delicâ e piña de sentimento de unna fraçion de campagna do paise de nascion de l’autô. Do resto i testi de cansoin en ligæ à de tematiche de fòrte introspeçion, che pan voei mette in evidensa e affoscinaçioin e e reflescioin de l’artista: da-o senso de corpa, ciæo fiña da-o titolo, inte Mea culpa (fòscia ligou a-o «dô sensa confin» do quæ se parla inte Cöse m’arresta) pe arrivâ a-a cosciensa de l’existensa de unna raxon de feliçitæ e d’arrembo psicològico fiña inte scituaçioin ciù tragiche da vitta, reciammâ da-a metafora da sciô drento de Unna reusa. Ma ste chì, beseugna remarcâlo, en solo che de ipòtexi, de za che o Besagno – comme lê mæximo o l’ascciæisce into libbretto virtuale ch’o l’accompagna l’arrecuggeita – o renonçia à dâ de spiegaçioin in sciâ raxon e in sciô scignificato de cansoin, pe lasciâ ch’o segge o fruitô ch’o se î dedue da lê, ò ciufito ch’o se î figue comme gh’é ciù cao.

Bambòcce sensa i euggi o rappresenta, into seu insemme, un travaggio da-a forte componente d’autô, ch’o l’inricchisce o panorama za abbondante da canson «impegnâ» stæto inaugurou ciù de trenteçinqu’anni fa da Fabrizio De Andrè pe mezo de Creusa de mâ. Con tutto, o Besagno – à differensa de tanti atri artisti che de reçente an fæto ciù grande o panorama da muxica in zeneise (mascime in sciô livello da qualitæ) – o s’avvarda ben da-o corrî apreuvo à de figue e à de suggestioin, tanto da-o ponto de vista de tematiche comme da quello da muxica, stæte reciammæ e sperimentæ ciù vòtte. Inte st’arrecuggeita no gh’é de spaçio pe quelle sonoritæ «esòtiche» che de spesso an accompagnou a produçion zeneise in muxica inte urtime dëxeñe d’anni, in sce l’exempio do De Andrè: o mondo do quæ l’autô o parla o no l’é atro che quello d’ancheu e da realtæ de frequentaçioin da seu persoña, e ciù che tutto quello da seu mente e di seu sentimenti. A sola componente ch’a no l’agge da fâ con unna dimenscion streitamente «ligure» – ben che solo da-o ponto de vista idiomatico – a l’é a primma parte de Ti, dôçiscima moæ, reciammo a-a Madònna cantou pe meitæ in grego antigo.

In sciô fronte da lengua, à tutte e mainee, o l’é o zeneise de Besagno ch’o meita quarche mençion: o l’arresata defæti pe unna genuinitæ delongo ciù ræa fiña inti travaggi d’arte, sensa ch’o tocche mai l’artifiçioxitæ (ciù ò meno neçessäia) che de vòtte a caratterizza i testi de chi veu deuviâ a lengua à di livelli «erti». Se tratta de un fæto ch’o mette in evidensa no solo che a competensa attiva da lengua da parte de l’autô, ma anche unna costante attençion pe-o mezzo d’esprescion che lê mæximo o deuvia.

In sciâ fin, l’imprescion ch’a se cava da un travaggio pægio a l’é che Paolo Besagno, pe mezo da pubricaçion de unn’arrecuggeita mai tanto impegnâ e dettaggiâ, o se mesce in piña cosciensa do ròllo e de responsabilitæ che compòrta o voeise propoñe comme autô de contegnui inte unna produçion – comme quella da muxica – ch’a rappresenta o ciù vivo, interessante e fòscia erto pe qualitæ inti ambiti d’arte ch’an da fâ co-o zeneise comme mezzo d’esprescion. Co-a concluxon, a-o mæximo tempo, d’arriescî à inserîse a-i megio livelli da muxica d’autô inte sta lengua za co-a primma arrecuggeita comme solista: unna meta che, se da un canto a conferma a dinamiçitæ e a varsciua, pe commun assæ grande, da muxica contemporania in zeneise inte quest’ambito, a giustifica da l’atro e gren aspettative pe di neuvi travaggi che l’autô o vorrià fâ conosce a-o seu pubrico.

Stefano Lusito

Traduzione italiana

Da qualche mese a questa parte, gli internauti che sono soliti frequentare le piattaforme di condivisione di contenuti audio – fra cui iTunes, Spotify e Bandcamp, oltre al più generalista YouTube – hanno l’occasione di accedere a una nuova raccolta di brani musicali in genovese, pubblicati all’interno di una collezione dal titolo Bambòcce sensa i euggi e firmata da Paolo Besagno.

L’autore, classe 1964, non è novellino nell’ambiente della musica prodotta in questa lingua: oltre ad aver collaborato con altri artisti e a essersi dedicato all’arrangiamento e alla composizione di brani propri, rappresenta da anni il direttore artistico della squadra di trallalero «Giovani canterini di Sant’Olcese», probabilmente fra le più conosciute (perché itinerante e pluripremiata) nella cerchia di quelle ancora attive ai nostri giorni.

Nonostante l’esperienza sviluppata soprattutto nel campo della canzone (ma sarebbe più corretto dire nel tipo di canto) genuinamente «popolare», i nove brani compresi nella raccolta mostrano un legame tutto sommato blando con quell’universo: i rimandi allo spazio locale compaiono infatti solo in Genovacolor, omaggio al capoluogo ligure liberamente ispirato alla celebre Litania di Caproni (dove trova precisamente luogo una breve esecuzione di trallalero), e in Voxe de Ciaê, sentimentale e delicato spaccato di una frazione rurale del paese di nascita dell’autore. Per il resto, i testi dei brani fanno capo a tematiche profondamente introspettive, che sembrano voler evidenziare inquietudini e riflessioni dell’artista: dal senso di colpa, più che mai esplicito fin dal titolo, in Mea culpa (forse collegato al «dô sensa confin» di cui si parla in Cöse m’arresta) alla consapevolezza dell’esistenza di un motivo di gioia e sostegno psicologico persino nelle situazioni più tragiche della vita, metaforicamente richiamato dall’immagine del fiore all’interno di Unna reusa. Ma queste, va detto, sono semplici speculazioni da fruitore dei brani, giacché Besagno – come egli stesso specifica nel libretto virtuale relativo alla raccolta – rinuncia a offrire chiarimenti su origini e significato delle canzoni, lasciando che sia l’ascoltatore a dedurli o, piuttosto, a immaginarli come meglio preferisce.

Bambòcce sensa i euggi costituisce evidentemente un lavoro più che mai cantautorale, che arricchisce il già abbondante panorama della canzone «impegnata» avviato ormai più di trentacinque anni or sono da Fabrizio De Andrè con Creusa de mâ. Ciò nonostante Besagno, a differenza di numerosi altri artisti che di recente hanno accresciuto lo scenario musicale in genovese (anche e soprattutto a livello qualitativo), si guarda bene dal riconcorrere immagini e suggestioni a più riprese evocate e sperimentate, sia dal punto di vista delle tematiche che da quello musicale. Non c’è spazio, in questa raccolta, per quelle sonorità «esotiche» che spesso hanno accompagnato la produzione musicale in genovese degli ultimi decenni, proprio sulla scorta dell’esempio deandreiano: il mondo di cui parla l’autore è semplicemente quello reale e attuale delle proprie frequentazioni umane, e soprattutto quello della propria mente e dei propri sentimenti. L’unica componente che esuli da una dimensione strettamente «ligure» – per quanto solo dal punto di vista idiomatico – è la prima parte di Ti, dôçiscima moæ, richiamo alla Vergine cantato per metà in greco antico. 

Sul fronte linguistico, tuttavia, a meritare qualche parola è soprattutto il genovese di Besagno, che risalta per una genuinità sempre più rara persino nei lavori artistici, senza comunque mai sfiorare la più o meno necessaria artificiosità che talvolta caratterizza i testi di chi intende far uso della lingua a livelli «alti»: un dato che evidenzia non solo la competenza attiva della lingua da parte dell’autore, ma anche una vigile attenzione per il mezzo espressivo di cui fa uso.

L’impressione che si ricava da un lavoro del genere è insomma che Paolo Besagno, attraverso la pubblicazione di una raccolta così impegnata e cesellata, agisca con piena coscienza del ruolo e delle responsabilità che comporta il volersi proporre come autore di contenuti all’interno di una produzione – qual è quella musicale – rappresentante il più vivace, interessante e forse qualitativamente alto fra gli ambiti artistici che interessano il genovese come mezzo d’espressione. Con il risultato, allo stesso tempo, di riuscire a inserirsi ai livelli maggiori della musica d’autore in questa lingua già con la prima raccolta da solista: un traguardo che, se da una parte conferma il dinamismo e in genere il considerevole pregio della produzione musicale contemporanea in genovese in questo specifico ambito, giustifica dall’altro le grandi aspettative nei confronti di ulteriori lavori che l’autore vorrà proporre al suo pubblico.

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Un webinar sul trallalero genovese

“Il lockdown non ci aiuta…” sembra essere il leitmotiv che ci accompagna ormai da un po’ di tempo. Anche tra gli artisti che calcano la scena della musica popolare, si percepisce questo disagio: la musica e il canto popolare fondano le loro radici in quella che è la convivialità e il contatto diretto con la gente. Tra gli artisti ben conosciuti dal pubblico affezionato al canto popolare, ci sono i Giovani Canterini di Sant’Olcese, formazione storica di trallalero genovese.

Anche la squadra di Sant’Olcese si affiderà alla tecnologia, pur di continuare a tenere viva la tradizione di questa straordinaria arte polivocale tipicamente ligure.

TrallalerOnline oggi intervista Simone Anelli, giovane presidente dell’associazione.

La cultura, l’arte, stanno vivendo un periodo davvero difficile. Avete qualche progetto in tempo di Covid?

Certo, è davvero difficile proseguire nella propria attività; penso agli artisti la cui fonte principale di sostentamento è rappresentata dalle performance dal vivo.

Nel nostro piccolo, visto che non ci è possibile vederci di persona – cantare il trallalero mantenendo il distanziamento sociale è praticamente impossibile – abbiamo pensato di portare avanti un progetto online.

Si tratta di un webinar, un seminario sul web, articolato in tre serate, 15, 22 e 29 Gennaio 2021 alle ore 21.00, che si svolgerà su piattaforma Zoom in cui si parlerà, in maniera del tutto divulgativa, di trallalero genovese.

Quali sono gli argomenti?

Un po’ di storia del trallalero, per quanto sia possibile parlarne, come funziona una squadra di canto, il ruolo delle singole voci, ascolto di esempi dalla viva voce dei canterini, il repertorio e tante altre curiosità.

Fondamentale è la partecipazione del pubblico per il quale sono previsti spazi, durante o al termine dei singoli incontri, per porre domande, esprimere pareri e, perchè no, gettare le basi per una partecipazione fattiva alla vita della squadra.

Un webinar per tutti, quindi. I costi di partecipazione?

Non ci sono costi di partecipazione. Per iscriversi è sufficiente mandare una email all’indirizzo gcsolcese@gmail.com, indicando nome e cognome e chiedendo di essere iscritti. Ci si può iscrivere anche a webinar iniziato.

Chi saranno i relatori?

Gli incontri sono organizzati e gestiti dai Giovani Canterini di Sant’Olcese. Vi saranno diversi canterini, più e meno giovani, che porteranno la loro esperienza. Molti di noi vantano decenni di presenza nel cerchio del canto.

Bene, Simone. Grazie per essere stato con noi. A presto sul web, dunque!

Grazie a voi tutti di TrallalerOnline per averci concesso questo spazio. Speriamo che molti abbiano piacere di aderire al nostro webinar. 

Vi aspettiamo numerosi come sempre! Un caro saluto a tutti ma soprattutto… non appena sarà possibile, vi aspettiamo alle prove, ai concerti o ovunque ci sia la possibilità di vivere un’esperienza di canto con noi!

A presto

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Intervista con Fabio Giancarlo Mori

Fabio Giancarlo Mori: se andiamo a vedere le carte, sembrerebbe essere un discreto elettricista, con un lungo passato da imprenditore del settore, condannato da un’onestà fuori luogo alla sistematica distruzione di quasi tutto ciò che aveva costruito in trent’anni, dalla molto più normale e consueta scarsa rettitudine morale di alcuni bancarottieri di professione.

Se invece esaminiamo tutto ciò che fa parte della sua immagine creativa e artistica, le cose si complicano e occorre farsi spiegare dal diretto interessato in quali gineprai abbia scelto di infilarsi negli ultimi cinque anni.

Allora: non è semplice districarsi tra la moltitudine di attività che hai intrapreso negli ultimi anni e che sembrano aver poco a che fare con la tua “vita precedente”.

Sicuramente, chi mi avesse conosciuto qualche anno fa e non avesse seguito gli sviluppi della mia vita, avrebbe qualche difficoltà a capirci qualcosa, e soprattutto, a riconoscermi, compreso un cambiamento radicale nel look, che mi ha riportato, diciamo, a un’immagine che corrisponde maggiormente alla persona che sono sempre stata, ma che avevo difficoltà a lasciar esprimere nella maniera giusta.

Sono una persona più che normale, con moltissimi difetti, molti pregiudizi basati sui miei ideali di vita, politici e culturali, che a volte fatico a contenere, ma che mi sto “addestrando” a controllare, e anzi, a sfruttarne le negatività per riportarmi nei giusti binari, cercando di divenire, col tempo, una persona forse migliore.

Ciò che ha contribuito maggiormente a liberare quell’anima nascosta, è stato certamente, l’incontro con la mia compagna attuale, Simonetta, che, conosciuta un anno dopo la separazione dalla donna con cui ho condiviso trentacinque anni di vita e due figli, ha compreso che l’inquietudine che mi divorava, e che trovava forma di un continuo scrivere, di un bisogno estremo di imparare e di mettermi in gioco, aveva bisogno di essere incanalata nelle forme artistiche che più mi erano vicine: la scrittura, appunto, e la musica, che ne è diretta conseguenza, e perché no, il teatro, e tutta l’attività che parte dalla gestione creativa a quella tecnica, di ogni forma artistica che porti su un palcoscenico, o nelle sue immediate adiacenze.

Quindi, ciò che stai facendo in questi anni è frutto di una vena artistica inespressa precedentemente? 

In qualche modo, credo di essere stato sempre a un passo dal togliere di tasca i miei sogni: da bambino amavo la musica, ma il fatto di non averne una tradizione familiare, mi ha probabilmente frenato in un’epoca e in un ambiente nel quale ricordo, ad esempio, che quando un amico, compagno di scuola, raccontò che avrebbe iniziato a prendere lezioni di canto e di danza, lo guardammo come un marziano, e le prese per i fondelli a suo carico furono micidiali: non c’era altra idea, nel quartiere operaio in cui sono nato, che chi arrivava, appunto, da famiglia operaia dovesse fare l’operaio, di quelli possibilmente a “posto fisso”.


Da adolescente, sono entrato nel mondo delle radio libere. Erano gli anni in cui queste furoreggiavano e la passione musicale si è indirizzata in quel senso: ho prestato voce e passione per diversi anni in diverse emittenti, fino quasi al crepuscolo del concetto di “radio libera ma libera veramente”, per dirla con Eugenio Finardi, quando, pur continuando ad ascoltare ore e ore di quella che era la mia musica del cuore, il Prog anglosassone, ho abbandonato le mie velleità artistiche per dedicarmi a quello che sarebbe diventato il mio mestiere (e la mia famiglia).

Quando le circostanze della vita mi hanno portato a cambiamenti radicali, il periodo, seppure relativamente breve di ”solitudine” affettiva, mi ha riavvicinato alla scrittura di testi, al teatro e alla musica vista dalla parte di un microfono, iniziando a fare esperienza come cantante dei miei testi e non solo.

L’incontro con Simonetta, mi ha portato a tradurre in un libro i miei testi, un libro, edito alla fine del 2016, che conteneva centodieci delle mie “opere”, raccolte senza un ordine cronologico preciso, ma secondo un filo logico personale: un racconto della mia vita, in qualche modo, ma anche di ciò che vedevo intorno a me.
Nel frattempo, ho iniziato a collaborare con Aldo De Scalzi e con tanti nuovi amici, nella produzione di opere musicali quali la revisione del Jesus Christ Superstar e del Tommy degli Who, oltre a contributi “tecnici” in altri spettacoli e con altri artisti.
Nel frattempo, cresceva la mia voglia di far divenire realtà il mio vecchio sogno di metter su una band che fosse mia e che riuscisse a portare veramente in musica le mie “Parole senza musica”, che era poi il titolo del mio libro.

Quindi, improvvisamente, nasce un nuovo “Fabio Giancarlo Mori”?

No: quello era sempre esistito probabilmente, ma era rimasto un po’ nascosto, un pochino in disparte, per dar modo ad altre priorità e altre esperienze di formarsi.
Probabilmente, non esisterebbe ciò che io sono oggi, se non ci fosse stato il percorso di vita che mi ha forgiato in tal senso, con tutte le mie lacune e i miei difetti, ma anche con una grande consapevolezza dei miei limiti e una altrettanto forte voglia di superarli continuamente.

Quando e come nasce il progetto musicale che stai sviluppando?

Nel 2018, con Renzo Bonissone, che già mi aveva seguito in diverse occasioni, ho formato The Mysterious Project Band, un gruppo definito per creare musica propria, partendo dai miei testi.

Una band che oggi, a tre anni dalla sua formazione, ha trovato una forma molto più stabile, con Paolo Gaggero alla batteria e percussioni e Stefano Campagna al basso, che fanno parte della formazione originale, quindi, Franchino Riccobono e Corradino Riccobaldi alle chitarre acustiche ed elettriche, Sergio Morselli, uomo d’immensa esperienza musicale, alle percussioni e batteria a sua volta, e poi, il nuovo ingresso di Aldo Biagini con la chitarra classica: un acquisto importantissimo anche dal punto di vista della composizione musicale e splendido amico, come tutti, del resto.

Quali sono i vostri lavori recenti e quali esperienze live avete maturato?

Devo dire che i due cambi di formazione che abbiamo passato ci hanno tolto qualcosa dal punto di vista del lavoro fatto, perché produrre musica inedita è discorso molto più lungo e complesso rispetto a lavorare su cover, o comunque su produzioni di altri, dove magari esistono già partiture, o comunque arrangiamenti da seguire per realizzare il proprio prodotto.

Abbiamo dovuto rinunciare a numerosi brani che avevamo composto, sia con Renzo Bonissone che con Ilaria Di Fraia, e che hanno portato con loro al momento del loro allontanamento dalla band.

E’ dato di fatto, però, che ciò ha coinciso con una maggiore snellezza nel realizzare le nuove canzoni, grazie anche ai musicisti che sono subentrati e che hanno dimostrato una grandissima duttilità nel comprendere che ciò che volevo non era un prodotto inquadrabile in uno specifico genere musicale ma, partendo appunto dai miei testi, dei quali sono fin troppo prolifico generatore, desideravo vedere che ogni brano vivesse di vita propria, con una propria identità, e con un suo stile, non sempre analogo o somigliante al resto della produzione: realizzavo così la mia vecchia idea sull’impossibilità di far indossare una “divisa” alla creatività.

Ogni componente della band ripone la propria esperienza e le proprie idee nella realizzazione di una canzone e il livello sia tecnico sia artistico è certamente cresciuto.

Dal punto di vista live, analogo discorso: i cambi ci hanno penalizzato nel formare un repertorio abbastanza vasto da poter essere presentato a un pubblico in un intero concerto, ma alcune esibizioni brevi, dove abbiamo presentato quattro o cinque pezzi, sono state certamente apprezzate dagli spettatori, che ci hanno comunicato vigorosamente il loro gradimento.

Credo che abbiamo trasmesso alcune emozioni importanti e questa è una grandissima soddisfazione, ma rappresenta anche un obbligo verso il pubblico per fare sempre meglio.

In questa direzione abbiamo svoltato proprio durante l’ultimo anno, e proprio “grazie” al lockdown di marzo e aprile scorsi.

Questo significa che dobbiamo attenderci qualche importante novità?

Verso la fine di marzo del 2020, in pieno lockdown, e mentre ero come tanti, chiuso in casa, tra verniciatura di balconi, panificazioni improvvisate e noia, per un caso fortuito, mi sono ritrovato a scrivere qualcosa che, nel giro di pochi giorni, è diventato imponente: dopo aver scoperto casualmente che Kit Carson, che tutti abbiamo conosciuto come personaggio del fumetto Tex Willer di Bonelli, era esistito veramente e aveva avuto una vita sicuramente particolare e avventurosa, ho iniziato a buttar giù testi per canzoni che volevo destinare alla realizzazione di un “concept album”, come usava negli anni ’70, basato in qualche modo sulla storia di Carson.
In una dozzina di giorni, ho scritto dieci testi, dieci canzoni, ognuna corredata da una narrazione, che più che altro era destinata agli altri componenti della band, per far capire loro il senso e la storia su cui basarsi per la composizione musicale.

Ho completato un fascicolo di una trentina di pagine, e l’ho fatto leggere a un caro amico, Marco Piras, attore e regista teatrale e lui, entusiasta, mi ha convinto che quei testi, quell’opera, potevano essere l’idea per la realizzazione di un grande spettacolo: uno show che comprendesse musica, teatro, cinema, danza e arti grafiche al suo interno.

Uno spettacolo da portare nei teatri per raccontare una storia, che non era davvero quella di Carson ma, attraverso i suoi occhi, quella delle sofferenze dei nativi americani e, per trasposizione moderna, quella del dramma e della sofferenza dei popoli, di tutti i popoli, che oggi affrontano l’abbandono delle loro terre e la morte, alla ricerca di un improbabile migliore futuro.

Un progetto ambizioso: proprio in un momento di grande difficoltà del settore spettacoli, e in particolare dei teatri.

Sì, è un progetto molto ambizioso, complicato e, come ho detto, imponente; a oggi ho coinvolto già una ventina di artisti nella realizzazione di “Con gli occhi di Kit Carson”: oltre alla Mysterious Project Band, ho chiamato altri musicisti, grandissimi musicisti ad aiutarmi.

Ci sarà Guido Licastro che si occupa delle tastiere e della composizione dei brani insieme con Aldo Biagini che, come ho detto prima, fa ormai parte della band.

Poi avremo Filippo Pasini al Banjio, mandolino e strumenti strani vari, e ancora Attilio Zinnari con la sua armonica blues, e Angela Zapolla al violino, ultimo arrivo, ma già fondamentale sugli arrangiamenti e sulla composizione; mi aiuterà nell’interpretazione vocale di alcuni brani la mia amica Loredana Cagnes, ottima cantante e grande professionista.

Per la parte teatrale, che sarà gestita in toto da Marco Piras, avremo Antonella Oggiano, Noemi Baldini, Marco Coussa Negro e Gino Versetti e infine, per la grafica, un grandissimo pittore: Marco Alloisio Monte.

Le scenografie saranno curate da Maria Rossetti, mentre il Project Manager non poteva che essere la mia Simonetta Fiandaca.

Mancano inoltre ancora alcuni elementi, per i quali stiamo studiando compiti e parti.

Comunque, un progetto che va oltre lo standard del semplice show musicale, anche perché i nomi in gioco sono inconsueti al solito panorama “genovese”, ma questo non mi spaventa e non ci deve spaventare: abbiamo intenzione di portare lo show in molti teatri italiani, non solo del nostro territorio.

I tempi di realizzazione si sono allungati un poco, a seguito delle restrizioni per il Covid, ma non abbiamo fretta: sappiamo di aver davanti un obiettivo importante da portare a compimento e prevediamo non meno di un anno e mezzo per essere pronti.
E quando saremo pronti, lo sapranno tutti.

Credo sarà un momento molto importante per me e per tutti noi salire sul palco con questo spettacolo, davanti a un pubblico che, credo, saremo capaci di emozionare ancora una volta e che già sta seguendo gli sviluppi del progetto attraverso la pagina Facebook dedicata “Con gli occhi di Kit Carson” e attraverso la pagina ufficiale della band.

In fondo, credo di aver dimostrato a me stesso che anche un buon elettricista può creare emozione, pur non dimenticando mai che la mattina dopo un bel successo artistico ti alzi e resti comunque un buon elettricista, con la passione per la musica.

Recentemente, sei tornato anche alla radio, con la produzione di un nuovo programma…

Sì, era un mio vecchio pallino, lasciato a dormire per trentacinque anni nel solito cassetto dei desideri, che di solito sta accanto a quello dei ricordi: a novembre, ho ripreso a fare radio attivamente, grazie ad un’emittente storica che si chiama Radio Alpha Genova, attiva fino agli anni ’80 sulla modulazione di frequenza, ed ora divenuta web radio grazie all’impegno di poche persone con il chiodo fisso della vera”radio libera”.

In primis, devo ringraziare il direttore artistico Gianni Mandruzzato, che mi ha dato la possibilità di proporre un nuovo formato che non è solo un contenitore musicale, ma cerca di portare anche qualche briciola di cultura e qualche sorriso in più nella fascia oraria mattutina dei nostri ascoltatori.

E’ merito del giornalista Franco Ricciardi, che mi ha messo in contatto con Radio Alpha Genova, dove lui già conduceva un gran bel programma.

Nel mio Coffee Shock, così si chiama il format, collaboro però con diversi amici: Cristina Bonzagni, corrispondente da Riace e dal mondo, Elisa Garfagna, che regala la sua splendida voce alla presentazione di molti brani musicali, Rocco Simeone, con un improbabile “telegiornale”, e il solito amico Marco Piras, che ormai mi accompagna in quasi ogni follia.

E’ anche grazie a loro che, dall’inizio del 2021, abbiamo incrementato il numero di appuntamenti settimanali, portandoli a tre, con il martedì, mercoledì e giovedì, dalle dieci alle undici, oltre a due repliche notturne sempre il martedì ed il giovedì alle due, e poi ancora in replica il sabato alle dieci e la domenica alle otto.

All’interno del programma, amo molto proporre la musica dei miei amici artisti, e il programma sta diventando un buon veicolo di promozione ma, soprattutto, uno spazio dove è possibile ascoltare qualcosa che non sia il solito prodotto preconfezionato che, purtroppo, spesso siamo abituati di ascoltare dalle emittenti commerciali che, comunque, si chiamano appunto commerciali, e fanno il loro mestiere.

Un bell’impegno, ma soprattutto una grandissima soddisfazione, perché questa radio è quanto di più vicina a somigliare ad una delle antiche, vere, emittenti libere, quello che piace a me insomma…

Voglio concludere, salutando tutti gli amici di Trallaleronline, un pubblico nuovo e particolare per quanto mi riguarda, che devo però ringraziare di cuore per avermi permesso di essere logorroico anche qui.

Un abbraccio, un sorriso a tutti e buona musica!

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Bambòcce sensa i euggi

Intervista a Paolo Besagno

Oggi la nostra rivista incontra Paolo Besagno, autore genovese, classe 1964.

Paolo Besagno

Chi è Paolo Besagno?

Sono nato nel 1964 a Genova e la musica è sempre stata un aspetto molto importante della mia vita: vi ho avuto a che fare fin da piccolo, anche se in casa mia nessuno la praticava. Solo verso i trent’anni ho iniziato
a studiare in modo più organizzato e fondamentale è stato l’incontro con Riccardo Dapelo, compositore e docente, con il quale ho studiato composizione e musica elettronica. L’incontro con lui, dicevo, è stato
importante perché mi ha aiutato a cambiare totalmente il mio modo di fare musica e mi ha offerto un nuovo punto di vista, soprattutto per quanto riguarda la musica del Novecento.

Innanzi tutto non ho posto grossi limiti al materiale sul quale lavorare: infatti, continuo da anni a occuparmi contemporaneamente di musica elettronica, canzone d’autore, trallalero genovese e soundscaping – ambienti sonori e culturali solo apparentemente avulsi.
Atteggiamento, il mio, a volte guardato con sospetto, altre visto come sinonimo di leggerezza e confusione. Pazienza.
La canzone d’autore e il trallalero genovese mi hanno valso la vittoria al Premio Città di Recanati nel lontano 1996, con il brano O trallalero Canson de unn-a vitta, presentato con la Squadra di Canto Popolare I Giovani Canterini di Sant’Olcese, della quale faccio parte e sono direttore artistico da oltre venticinque anni.
Ma non voglio rubare altro spazio a quest’intervista. Chi vuole conoscere la mia attività, può farlo sul sito internet www.besagno.com o, ancor meglio, visitando Wikipedia alla voce ‘ Paolo Besagno ’.

La copertina di “Bambòcce sensa i euggi”

Veniamo alla tua ultima produzione, la raccolta di canzoni in genovese Bambòcce sensa i euggi (Bambole senza gli occhi). Un titolo impegnativo…

Bambòcce sensa i euggi nasce da un brano,  Mea Culpa , scritto con Mike fC Ferroni, un altro artista della scena musicale genovese, di cui credo sia
apparsa un’intervista proprio sulle pagine di questa rivista.

Mea Culpa è un brano che tratta dei fratelli che vivono sulla “riva di fronte” e tentano di fuggire per venire a rifugiarsi qui. Le bambole senza gli occhi siamo noi quando non vogliamo vedere la loro tragedia, ma anche loro stessi, quando vengono ritrovati sulle spiagge, restituiti dal mare.

Forse il titolo è davvero impegnativo, ma credo sia appropriato: questa scelta è dettata anche dal fatto che volevo, con l’uso del genovese, scrivere senza filtri, visto che spesso mi trovo a pensare nella mia lingua madre.

La raccolta, composta da nove brani, tocca diversi argomenti. Ce ne parli?

Volentieri. Dolore, spiritualità, gioia, contatto con le proprie radici.

A proposito di quest’ultimo aspetto, in Genovacolor faccio uso del trallalero genovese, inserito in un cameo al termine del brano.

Se siete d’accordo, preferirei non entrare troppo nel merito dei brani, ma rimandare chi sta leggendo quest’intervista all’ascolto diretto del disco e alla sua  presentazione in genovese sottotitolata in italiano.

E per quanto riguarda la line-up del disco?

Il lockdown non ci ha aiutati a ritrovarci e lavorare tutti insieme così, come spesso si è soliti fare negli ultimi tempi, abbiamo registrato ognuno a casa propria e in un secondo tempo ho assemblato tutto il materiale nel mio studio.

Questa la line-up del disco:

Paolo Besagno – testi, musica, pianoforte, voce, flauto in bamboo, programmazione computer, organo Hammond.

Mike FC Ferroni – parole del rap e voce in Mea culpa, mastering.

Stefano Bosi – fisarmonica

Maurizio “Cillo” Costa – basso

Rinzivillo – chitarre

Alessandro Campora – controbasso

Roberto Ivaldi – primmo

Fabrizio Parodi – voxe chitàra

Stefano Lusito – revisione dei testi in genovese

Aldo Giavitto – parole in greco antico di Ὤ ἡδιστε σύ μῆτηρ.

Molto bene, dove possiamo trovare la raccolta e il booklet?

Bambòcce sensa i euggi è distribuita gratuitamente su tutte le piattaforme digitali ma fornisco i link ai quali raggiungerla:

Playlist su SoundCloud

Canale Youtube

Qui il booklet, curato da Stefano Lusito, con le traduzioni in italiano e alcune note di presentazione:

Booklet

 

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Intervista a Danilo Lanini

Danilo Lanini

In questo numero incontriamo il pittore genovese Danilo Lanini.

Danilo, è un piacere ospitarti sulle pagine di TrallalerOnline. Cominciamo con qualche considerazione sulla tua attività pittorica

Fin da piccolo ero attratto dai colori e dalla natura. Ero al settimo cielo quando mia nonna Rina o mia madre mi compravano matite colorate, pastelli e i primi colori ad olio…mi piaceva anche l’odore…annusarli. I miei soggetti da bambino erano inequivocabilmente quelli della Disney… Topolino, Paperino ma anche quelli dei film come Bambi, Cenerentola o Biancaneve che ho ancora, perché conservati da mia nonna come fossero reliquie; in effetti mia nonna era a dir poco orgogliosa del mio talento esordito così precocemente.

In età adolescenziale, parallelamente agli studi di Geometra, mi avvicinai molto al mondo della grafica e in particolare del fumetto partecipando a varie rassegne e vincendo alcuni premi. E’ proprio a seguito di queste esperienze che fui messo in contatto con il grande fumettista della Bonelli, Renzo Calegari che viveva a Bolzaneto. Da lì nacque un sodalizio con questo grande artista (scomparso da pochi anni), che si protrasse anche quando lo stesso si trasferì a Chiavari, in piazza Roma. Ho dei ricordi bellissimi di quel periodo; accompagnato da mio cugino Fausto andavo a far vedere le mie tavole a Renzo e conservo nel cuore la sua estrema disponibilità nell’aiutarmi e la grande gentilezza di sua moglie. Loro ci chiamavano “i figgieu de Teggia”. (i ragazzi di Teglia, quartiere di Genova

Ma le incombenze della vita, come il militare prima e la necessità di trovare un impiego sicuro dopo, mi allontanarono dall’attività artistica. Ma quello che avevo dentro non si poteva soffocare.

Il respiro del mare – olio

Parlaci del tuo percorso artistico, di come hai iniziato la tua avventura nel mondo della pittura

Dopo il Diploma, fu infatti durante il praticantato per la libera professione di geometra che, mentre con un collega transitavamo in via Galata a Genova Brignole, per andare a misurare un appartamento, mi imbattei nei dipinti di Francesco De Panis, esposti alla Galleria L’Artistica.

Rimasi folgorato… erano paesaggi che sembravano fotografie ma mantenevano l’eleganza compositiva e cromatica della nostra migliore tradizione paesaggistica italiana, del ‘900 in particolare. Io, che adoravo i nostri macchiaioli (Fattori, Silvestro Lega, Odoardo Borrani, Segantini, Pelizza da Volpedo e altri) mi rendevo conto che quell’artista geniale (De Panis) aveva assorbito quella tradizione pittorica elevandola all’infinitesima finezza e quindi rendendola moderna, in un riuscitissimo connubio con l’iperrealismo di stampo americano di inizio Novecento. Incredibilmente dentro di me lanciai la sfida a me stesso: avrei tentato di eseguire quella pittura da autodidatta, senza Liceo Artistico né tantomeno Accademia di Belle Arti e in più conscio di non avere le qualità pittoriche di quel genio di De Panis. Lo dissi al mio collega che logicamente ne rise, canzonandomi simpaticamente. In effetti l’impresa appariva impossibile. Ma io non demorsi e con grande entusiasmo e follia incominciai a provare a dipingere quadri di quel tipo anche perché (lo capii in seguito) soddisfacevano la mia passione primordiale di quando ero bambino: il colore e la natura ma anche il riferimento alla grafica. C’era tutto. I primi anni furono difficili. Venendo dalla grafica e dal fumetto tendevo a fare scuri fumettistici prossimi ad un nero irreale ma la mano c’era. Con il mio amico pittore David Lunadei ho fatto la gavetta con i cosiddetti “pittori in piazza” con cavalletti e quadri in mostre collettive nel centro di Genova, a Nervi e in altri luoghi. Mi accorsi che i miei quadri, seppur pieni di difetti, piacevano e si vendevano …erano gli anni ’90 …ma non mi sentivo all’altezza di accedere alle Gallerie e poi avevo bisogno di un lavoro stabile.

Estate a Torriglia – olio

Era il 1999 e il fratello della mia compagna Nadia, Nevio (che per me era più un fratello che un amico), generoso come sempre, portò di nascosto alcuni miei quadri al gallerista e critico d’Arte della Galleria Il Crocicchio, l’architetto Angelo Valcarenghi. Questi mi convocò lodando le mie capacità grafiche e affermando che sussistevano i presupposti per un salto di qualità a livello professionistico. Dovevo solo lavorare ancora sul colore che risentiva ancora troppo dell’influenza grafico/fumettistica. Non ci potevo credere. Così feci. Quell’anno partecipai alla mia prima mostra collettiva natalizia alla Galleria il Crocicchio, con grande risposta della clientela. L’anno dopo- era il 2000 – ci fu la mia prima personale presso la stessa Galleria con un successo che neppure immaginavo… quasi tutti i quadri venduti. Ricordo l’immensa soddisfazione di mia nonna ma soprattutto di mio padre che senza farlo troppo vedere aveva sempre creduto in me e nei miei sacrifici. Morì l’anno dopo senza poter vedere la mia stabilizzazione definitiva nel lavoro. Almeno aveva visto la mia prima Mostra. Da lì fu un susseguirsi di Mostre nelle Gallerie, di inserimenti su libri e riviste d’arte di rilievo, di pubblicità televisiva con la Galleria Merighi anche a livello europeo sino alla convocazione da parte degli organizzatori alla Biennale di Verona nel febbraio 2014, presentata e a cura del famoso critico d’arte Vittorio Sgarbi. Il destino mi fece poi un grande regalo: nel 2015 conobbi il mio grande Maestro di riferimento, Francesco De Panis col quale è nato un rapporto non solo di reciproca stima e condivisione artistica, ma una autentica e solida amicizia che perdura tuttora. La mia inclinazione artistica non è mai stata orientata solo al disegno e alla pittura, ma anche alla musica. I ragazzi della mia via, di qualche anno più grandi, ascoltavano soprattutto Beatles, Rolling Stones e Pink Floyd. Era inevitabile per me appassionarmi a quella musica straordinaria e cominciai a suonare la chitarra, sempre da autodidatta ma con qualche lezione del mio vicino di casa. Ma la svolta di passione assoluta verso la musica la devo soprattutto al caro cugino Paolo Besagno, ottimo musicista. Ricordo gli interminabili pomeriggi dei primi anni 80 – avevo 16/17 anni – ad ascoltarlo suonare l’organo della chiesa di S.Olcese, la musica classica ma anche le canzoni di Battiato, Ron, Elton Jhon e di molti altri artisti con un effetto di eco fantastica. Esisteva infatti un tacito accordo con l’allora parroco di S.Olcese: ci permetteva di suonare in chiesa quando la stessa era deserta…lontano dalle funzioni liturgiche.

E’ stato il periodo più bello della mia vita…insieme ai miei cugini Cristina Roberto e Paolo, ho trascorso i momenti più belli della mia esistenza. Successivamente ho fatto parte di alcuni gruppi rock-pop in qualità di cantante e chitarrista.

Faggi in autunno – olio

Dato che il destino o la vita dà e poi prende, purtroppo dal 2017 sono esorditi completamente i sintomi di una rarissima malattia neurodegenerativa di origine genetico-familiare di provenienza paterna (atassia spino cerebellare), che aveva già dato i segni di sé negli anni precedenti. Visto che il danno è a carico del cervelletto, si ha un disordine nei movimenti sia agli arti inferiori con difficoltà nella deambulazione e nell’equilibrio, sia in quelli superiori con problematiche serie nella psicomotricità fine. Per cui un genere pittorico come il mio, che rasenta la perfezione fotografica, diventa molto difficoltoso in queste condizioni…ma per ora, con grande fatica, la passione pittorica è più forte della malattia stessa e riesco ancora a dipingere i miei quadri senza grandi differenze rispetto al passato. Non so per quanto ancora, dato che la malattia inevitabilmente progredirà nel tempo.

Finchè potrò, dipingerò.

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Intervista ai Mistake Five

I Mistake Five: Davide Corso (Sax), Claudio Pittaluga (Batteria), Daniele Romagnoli (Chitarra), Diego Artuso (Tromba), Giuseppe Chisalé (Basso).

Chi sono i Mistake Five?

Davide : I Mistake Five compiono il loro decimo compleanno. La formazione è sempre stata sax, tromba, chitarra, basso e batteria. Negli anni ci sono stati alcuni cambi riguardanti chitarra e tromba, ma dal 2015 la formazione attuale è stabile: Claudio Pittaluga alla batteria, Daniele Romagnoli alla chitarra, Giuseppe Chisalè al basso, Diego Artuso alla tromba ed io, Davide Corso, ai sax. E’ un gruppo di persone adulte che condividono la passione per diversi generi musicali e cercano di fonderli in questo esperimento, liberi da ansie quali il gradimento del pubblico dei locali, la vendita dei cd, e così via.

Claudio : I Mistake Five sono la liberazione dalla responsabilità che sentivo nei gruppi in cui ho suonato in precedenza, nei quali spesso scrivevo testi e musiche. I Mistake Five sono un gruppo di persone che mette liberamente a disposizione le proprie qualità e i propri limiti, senza preoccupazioni, costruttivamente.

Parliamo dei componenti del gruppo, la loro formazione, esperienze precedenti…

Davide : Nei Mistake Five suono sax contralto e soprano. Dopo 5 anni di pianoforte ho studiato chitarra jazz con Alex Armanino, poi flauto traverso alla Filarmonica Sestrese ed infine sassofono con Paolo Pezzi. Ho militato in diversi gruppi genovesi, spaziando dall’hard rock (parliamo degli anni ’80) dei Malison al prog/fusion del Great Complotto ed al jazz in big band con la Swing Band di San Fruttuoso. Oggi mi dedico prevalentemente al jazz. Conosco Giuseppe, il bassista, dal 1982. Un amico fraterno… Abbiamo suonato assieme in tante situazioni diverse e per me è sempre una colonna portante: posso non sentire nient’altro, ma se sento il suo basso sono a posto! E’ la solidità fatta suono.

Diego, il trombettista, l’ho incontrato nella Swing Band di San Fruttuoso. Un musicista versatile che non si spaventa di fronte alle proposte (musicalmente) indecenti che vengono fuori nei Mistake Five.
Diego : Per un fatto puramente anagrafico, provengo dal periodo culturalmente radicato negli anni ’70, in senso lato e quindi anche musicalmente. La musica classica, il pop, il blues, quindi il rock ed il progressive hanno sempre rappresentato la colonna sonora della mia esistenza. Sono partito dalla chitarra e poi la batteria, in gruppi locali, dove hanno marcato il territorio Roberto Martino, Paolo Bonfanti ed altri meno noti ma non meno interessanti, nel genere blues.

Dal ’74 mi sono avvicinato quasi per caso al jazz in occasione di Umbria Jazz, e da lì mai più abbandonato. Solo molto tardi, nel 2006, a cinquanta suonati, ho deciso di studiare la tromba jazz in Bb e la musica di conseguenza, partendo dal solfeggio, con il trombettista maestro Casati Giampaolo per sei anni consecutivi. Ed ora eccomi qui…

Claudio : Suono la batteria dal ’88, ho studiato prima col compianto Mauro Pistarino, poi con Pierpaolo Tondo ed infine con Roberto Maragliano. In passato ho suonato nei Megaptera in cui alternavamo cover a composizioni originali prevalentemente hard e progressive rock. Intorno alla metà degli anni novanta, con Daniele alla chitarra, abbiamo dato vita agli Ines Tremis con lo scopo di suonare musica contaminata e senza frontiere (e con il malcelato intento di destabilizzare, stupire e, perché no, infastidire il prossimo). Le influenze zappiane di Daniele e la passione per la musica fuori dai righi l’abbiamo portata nei Mistake Five, contribuendo per l’aspetto sghembo degli arrangiamenti.

Il genere che fate, come può essere definito e, se sto dicendo bene, il vostro legame con il prog.

Davide : Potrebbe essere definito jazz-rock, nel senso che la base è jazzistica (le composizioni, le strutture, l’improvvisazione, la strumentazione) ma le sonorità, soprattutto quelle di chitarra e batteria, e l’uso di riff sono spesso più tendenti al rock.
Il nostro repertorio è costituito essenzialmente da cosiddetti “standard”, i brani che costituiscono la letteratura del jazz (se ne contano circa un migliaio), il che, detto così, potrebbe fuorviare: non si tratta di un riarrangiamento degli standard ma di una riscrittura. Ci piace prendere uno standard, a volte anche solo una parte del tema, e usarlo come spunto compositivo per ottenere qualcosa di prevalentemente nuovo che mantiene un filo con il brano di partenza. Ci piace molto anche inserire citazioni più o meno nascoste.

Volendo fare una battuta, abbiamo fatto in modo di far storcere un po’ il naso sia ai jazzisti sia ai rockettari, ma ci divertiamo…
Claudio : Definire prog la musica che facciamo rischia di allinearci con quella folta schiera di emuli che ritengono, a torto, che sia prog rifare il prog di quarant’anni fa.

Erano Prog i Genesis negli anni settanta come lo erano i Mr Bungle negli anni novanta.
La domanda stessa che viene posta: “che genere fate?” mi assilla da sempre, visto che non ho mai suonato un genere diverso da quello che mi piace ascoltare. Fluisce tutto dalle orecchie alle dita e il risultato non è mai come quello che entra nelle orecchie. E’ un po come il telefono senza fili.

Parliamo del disco, un po’ dei brani contenuti in esso e se c’è qualche aneddoto particolare collegato ad essi…

Davide : Il disco, un EP di 4 brani registrato allo Studio Maia da Andrea Torretta, rappresenta l’approccio al jazz rielaborato di cui parlavamo prima: abbiamo preso 4 standard celeberrimi: “Summertime”, “Take five”, “My favorite things” e “Naima” e li abbiamo utilizzati come punto di partenza per costruire delle composizioni fatte in gran parte di materiale originale e qualche citazione presa in prestito da altri domini musicali. Entrando un po’ più nel dettaglio:

Summertime” , dal Porgy & Bess di Gershwin, non ha bisogno di molte presentazioni: basti pensare che è al terzo posto nella classifica degli standard jazz più suonati al mondo. Nella nostra versione il riff di apertura è in realtà basato su un breve segmento melodico preso da un assolo di Chet Baker proprio su Summertime. Il tema vero e proprio invece è esposto da basso e tromba sordinata per poi essere richiamato, stravolto, quasi in caricatura, nel solo di sax soprano. Il finale cita nientepopodimeno che i Metallica \m/

Per ” Take Five ” di Paul Desmond (a cui si rifà anche il gioco di parole che costituisce il nostro nome), brano in 5/4 scritto nel 1959, quando i tempi dispari erano del tutto inusuali nel jazz e nella musica popolare in genere, abbiamo giocato su un mix di metrica in 5 e in 6. Una caratteristica della nostra rielaborazione è che il cosiddetto bridge, l’ “inciso”, non compare mai come melodia completa, ma solo come impianto armonico per gli assoli di chitarra e di sax prima, e accennato in scheletro in un interludio a tempo libero poi, verso la fine del brano. Nel solo di sax le suddette armonie ad ogni giro vengono traslate di una terza minore verso il basso, in modo da tornare, dopo 4 volte, alla tonalità originale.

My favorite things ” dal musical “Sound of music” (in italiano “Tutti insieme appassionatamente”) deve la sua fama in ambito jazzistico alla (re)interpretazione che ne fece John Coltrane nell’omonimo LP del 1960.

Claudio : La prima parte si sviluppa attorno ad un giro di basso ostinatamente funky su ritmo shuffle mentre il tema viene interpretato, come nelle colonne sonore di Schifrin, scomposto e stratificato dai due fiati.
Davide : Segue un’esposizione più canonica del tema (omettendo la parte in maggiore), e, dopo il solo di sax, una sua pesante rielaborazione dal sapore effettivamente un po’ symphonic prog, che si va ad agganciare al riff di YYZ dei Rush.

Naima ” dello stesso ‘Trane, ballad dedicata alla prima moglie ed inserita nel suo album-capolavoro “Giant steps”, di cui costituisce l’unico elemento che potremmo definire “meditativo” in mezzo ad una serie di brani pirotecnici, ha una melodia evocativa, struggente, che in apertura alla nostra versione viene proposta prima dalla chitarra e poi dai fiati.
Claudio : Nella parte centrale ci siamo invece divertiti a sfottere le celeberrime versioni “bossa” che sono tanto in voga nelle scalette jazz dei marchettari. Qui la bossa c’e’, ma e’ dispari. Toh. Davide : Esatto. Una bossa in 7/4 su un ostinato di basso. Il basso qui fa da perno attorno a cui girano le armonie di quella che di fatto è una composizione nuova, che solo qua e là richiama piccole cellule melodiche di Naima. Il gioco appare quasi rovesciato nella terza sezione, in cui il basso suona esattamente le note del bridge del brano di Coltrane, e gli altri strumenti ci costruiscono sopra un’impalcatura in cui si intrecciano diversi temi originali; con un ossimoro, un “assolo di gruppo” scritto.


Progetti ai quali state lavorando o che state per realizzare

Davide : Stiamo lavorando su brani nuovi, sempre con la stessa logica. Vorremmo anche fare altre registrazioni, stavolta magari con meno fretta di finire.
Claudio : La direzione e’ quella, destrutturare ma senza un preciso procedimento.
Siamo aperti a qualunque proposta, l’esperienza live è di fatto la linfa di chi suona, ma la proposta dei Mistake Five è decisamente difficile da piazzare. La fatidica domanda: “ che genere fate ” e la conseguente confusione della risposta non aiuta l’appetibilità del…prodotto.

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