Intervista a Riccardo Dapelo

Riccardo Dapelo

Chi è Riccardo Dapelo? 

Mi è capitato di  sentire Salvatore Sciarrino dire: “Non sarebbe meno noioso se nei programmi di sala, invece delle biografie, si scrivesse: « Mi piacciono gli alberi, i fiori, quel quadro o quello scultore, un poeta o uno scrittore? »

Allora provo a cominciare, come ho fatto sul sito che ho progettato e pubblicato nel 2016 (www.riccardodapelo.com):

Mi piace correre, scalare le montagne, sciare, godere della bellezza del mondo, della purezza delle vette, progettare algoritmi, sperimentare nuovi sistemi di notazione, improvvisare, scrivere musica, insegnare, fotografare fiori e piante (di montagna ma non solo), incrociare diversi aspetti di arte e scienza, osservare sistemi naturali e trarne ispirazione per nuovi progetti creativi.

In esergo nella pagina del sito aggiungo una frase di Jackson Pollock, che condivido pienamente: “Io mi occupo dei ritmi della natura”.

Oppure potrei continuare con la bio – un po’ più ironica – del sito di Alarkestra (ora ahimè non più attivo, ma ci tornerò in seguito):

È il nonno del gruppo. Ha sentito cose che i giovani umani di ALA non potrebbero immaginare (Demetrio Stratos cantare la voce e i Mesostics di J. Cage, l’ultimo concerto in Italia di Jaco Pastorius…, Gianfranco Manfredi ridestare gli zombie di tutto il mondo). Appena può va a correre su qualsiasi cosa somigli a una montagna. Poi torna e progetta l’ennesimo algoritmo autocompositivo che lo farà tribolare fino al prossimo concerto. Per non soccombere cerca di inventare nuovi modi creativi per insegnare Composizione e Nuove Tecnologie per la musica, attualmente al Conservatorio di Piacenza.

O ancora potrei prendere a prestito l’amato Mario Rigoni Stern:

”La letteratura è come una foresta, ci sono alberi grandi e bellissimi che  sovrastano gli altri […]. Ma la foresta è bella perché ci sono anche arbusti e cespugli [.]. Dove la foresta alpina si dirada e la montagna, in alto, diventa nuda, lassù cresce l’albero più piccolo della terra: il salice nano che si difende dal vento aggrappandosi al suolo e ruba il calore alla roccia che il sole illumina; [.] ecco, nella foresta della letteratura sono un salice nano.” 

Questa metafora fu utilizzata da Luciano Berio anche a proposito della storia della musica.  Dinanzi a questi maestri io potrei essere al massimo un’erbaccia infestante o un rovo; ma con una discreta dose di presunzione mi paragono ad un pino mugo, basso, contorto e un po’ acciaccato, ma resiliente. E a proposito di resilienza, in conclusione, indubbiamente il mio animale totemico è l’orso, onnivoro, scontroso e solitario, come il mitico M49 che sta sbeffeggiando coloro che si sono arrogati il diritto di vita e di morte sulla sua esistenza. 

(Chi volesse informazioni più tradizionali le può reperire sul sito di cui sopra).


2) Parliamo della tua scelta di fare musica elettroacustica, dopo una preparazione classica: pianoforte, composizione, musica da camera. Perché un compositore approda all’uso del mezzo elettronico?

Direi innanzitutto che mi è sempre interessato il risultato, indipendentemente dai mezzi utilizzati. Sono sostanzialmente un onnivoro (come il famoso orso) e quindi ho perseguito ed esplorato una varietà di mezzi tecnici, teorici e/o concreti, pratici e algoritmici, sia con la matita sia con il computer. Il caso ha poi voluto che il mio primo lavoro retribuito fosse il programmatore midi (part time) per la Edirol. Comunque anche se nato con la matita, come compositore, la discriminante che ho rilevato ad un certo punto del mio percorso è stata la possibilità di toccare, plasmare, manipolare il suono quasi come uno scultore o un pittore (a cui ho sempre invidiato il contatto fisico con l’opera; mi sono perfino creato una interfaccia che mi permette, tramite videocamera, di plasmare il suono con movimenti delle mani). Questo punto di arrivo si è sostanzialmente trasformato in un centro di attrazione  gravitazionale, che peraltro non mi impedisce, quando ne sento il bisogno, di ricorrere alla pura scrittura strumentale – con una mutata prospettiva scaturita dalla esperienza elettronica ed informatica. Tornerò in seguito su questo punto in merito alle opere adattive.


3) Da Kindergarten alle partiture adattive. 

Si tratta di un percorso ormai venticinquennale. Il mio concetto di percorso non è né teleologico né lineare (me lo conferma l’esperienza), ma qualcosa che assomiglia al pensiero, che si muove in più direzioni, per associazioni, rimandi, scoperte, intuizioni, accumulazioni, abbandoni e ritorni. Guardando a ritroso ne vedo la conferma. Kindergarten è stato il mio modo di interpretare il modello di Musica su due dimensioni di Bruno Maderna: le due dimensioni sono declinate in molte sfaccettature, strumento e nastro, pianoforte e voce infantile, suono originale/riconoscibile e suono trasformato/non riconducibile a una sorgente; reale e virtuale, umano e artificiale, padre e figlio (la voce originaria è quella del mio primo figlio e le mani che suonano il pianoforte sono quelle della madre). Se guardo il mio catalogo dall’inizio, vedo crescere progressivamente in numero i lavori con interazione. Questa diade iniziale tra uomo e macchina ho cercato di approfondirla ed esplorarla sempre più. Non mi bastava l’interazione tra nastro ed esecuzione dal vivo, volevo andare alla radice, cogliere l’interazione alla sorgente, nel momento in cui scaturisce, approfondire gli “infiniti possibili” come li definiva Luigi Nono. In fondo, pur nei movimenti in molteplici direzioni di cui ho parlato prima, il mio personale attrattore è stato sempre volto alla interazione come possibilità creativa espansa, che aggiunge nuove connotazioni alla performance musicale. Un modo di interpretare attivamente ed estemporaneamente il concetto di “opera aperta”.


4) Il gesto nelle installazioni acusmatiche. Il Live electronics anche come atto esteriore. Tue esperienze

Così anche le articolazioni del live electronics mi hanno condotto verso forme di interazione sempre più spinta. Segnalo a questo proposito uno dei primi esperimenti di convoluzione in real time, realizzato nel 1999 per “Desiderio che avanza nelle mappe della materia”, per il Festival Spazio Musica di Cagliari. In quel caso gli interventi degli esecutori dal vivo venivano trasformati tramite convoluzione dal vivo con flussi di suoni registrati delle sculture sonore di Pinuccio Sciola (su cui tornerò più avanti). I passi successivi hanno visto mettere in gioco anche gli aspetti esecutivi, realizzando partiture ad assetto variabile, da assemblare ad ogni esecuzione (ad es FRAN del 2006, per pianoforte e percussioni) ed un progressivo inserimento di diversi mezzi espressivi (danza, video, immagini, recitazione, poesia) all’interno dei miei lavori. Fondamentali sono stati gli anni di collaborazione (dal1995 al 2009) con Infomus lab dell’Università di Genova (oggi Casa Paganini), che mi hanno permesso di confrontarmi ed esplorare le tecniche più aggiornate di cattura ed analisi del movimento. Contemporaneamente mi dirigevo anche in zone di confine (“i luoghi non giurisdizionali” di Giorgio Caproni), come installazioni d’arte, museali, performance di vario genere, videoarte, teatro elettronico, continuando un lavoro di ricerca su ogni tipo di sensore e dispositivo utilizzabile in situazioni interattive (microfoni a contatto, bobine, microcamere, sensori ad ultrasuoni, etc.)

Tutto sommato mi soddisfa di più sperimentare spazi e prospettive differenti, non tradizionali (la sala da concerto) e sfidare il rischio di sembrare fuori luogo, in senso letterale, ma anche metaforico. Accordare gli spazi, creare suoni, ambienti e azioni ispirate, legate e trasformate dal contesto, in quanto luogo fisico o sociale, mi attira molto di più.


5) Alarkestra: poesia e musica

Tra le riflessioni e le tendenze che mi sono sempre interessate un posto di riguardo lo occupa l’improvvisazione (come già detto la mia prima esperienza musicale forte sono stati gli Area).

Questo è un estratto del programma di un workshop sull’improvvisazione tenuto al Conservatorio di Piacenza nel 2015 (con Walter Prati, Giampaolo Antongirolami, Giacomo Lepri):

“Il workshop si propone di affrontare lo spazio grigio e polimorfo (il regno dell’ombra doppia) che si estende tra scrittura, notazione grafica, composizione improvvisata e elaborazione elettronica dal vivo. Per affrontare questo ambito riparte dall’esperienza di Nuova Consonanza (ma anche di molti altri gruppi): creare un gruppo di compositori, interpreti e musicisti elettronici che affrontino la prassi dell’improvvisazione senza rinunciare ad una consapevole azione di valutazione ed elaborazione teorica (attraverso la registrazione delle sessioni di improvvisazione ed a seguito di un loro ascolto critico)”.

Avevo partecipato a questo tipo di esperienza (tra l’altro veramente coinvolgente per il rapporto che si viene a creare con gli studenti) anche durante un laboratorio svolto con Roberto Doati e Pietro Leveratto al Conservatorio di Genova, da cui era scaturito un gruppo di musicisti molto motivati. Così nel 2015 fondammo ALA (Abstract Liquid Arkestra), costituita da quattro performer vocali/cantanti e due elettronici (il nucleo fondatore era composto da Camilla Biraga, Giulia Beatini, Alice Quario Rondo, Giorgia Rotolo, Luca Serra ed io). Tutti giovani (tranne il sottoscritto). La regola del gioco era che i programmi, scelti prima collettivamente sulla base di un filo conduttore, una idea portante, erano rigorosamente improvvisati, però sottoposti ad un lungo lavoro preliminare di registrazione, riascolto, aggiustamento critico e ricerca della interazione non verbale.

Purtroppo a causa delle difficoltà esistenziali (e pratiche) dei giovani che tentano di vivere della propria arte questa esperienza è ad oggi conclusa. Mi resta però un significativo ricordo e anche la gratitudine di aver potuto condividere una parte di strada con giovani e valenti musicisti.


6) Le sculture sonore, l’esperienza con Pinuccio Sciola

Questa è stata una delle esperienze più profonde durante i primi anni della mia attività. Per quelle circostanze particolari che regolano il gioco dalla vita (in realtà sono debitore di buona parte dell’accaduto verso Antonio Doro, mio collega al Conservatorio di Sassari, che mi fece conoscere lo scultore e le sue opere) nacque questa “liaison”artistica tra un maestro della scultura e un giovane (allora) compositore. Era il 1999 e insegnavo a Cagliari, e durante i miei soggiorni ero quasi sempre nella casa atelier di Pinuccio, nel paese-museo di San Sperate. Trascorrevamo i momenti liberi dai rispettivi impegni a progettare installazioni e performance sulle sue sculture sonore. La sua determinazione e la sua scommessa di vivere della propria arte suscitarono in me la più profonda ammirazione e sono ancora un modello di vita. E che dire delle sue sculture sonore? Passavamo molto tempo a studiare come farle suonare al meglio e a registrarle e fotografarle. Mi sentivo anche un po’ incredulo (e fortunato) ad avere la fiducia di un grande Maestro. Insieme (con il contributo fondamentale di Giorgio Dettori e della Regione Sardegna) realizzammo alcune installazioni interattive di grande successo e risonanza (specialmente quelle del 1999 alla Buchmesse di Francoforte e quelle del 2000 a Cuba ed all’ Expo di Hannover, nel padiglione Italiano). Per quella installazione, che si intitolava “dove nascono le stelle”, scelsi di non toccare le sculture sonore (che già all’epoca venivano usate come strumenti musicali percussivi) ma di applicare dei sensori ad ultrasuoni nascosti tra le superfici delle sculture, creando uno spazio virtuale in cui il pubblico poteva interagire, rigenerando il suono delle sculture muovendosi nell’aria senza toccarle direttamente: era il mio modo di rendere omaggio all’arte di Pinuccio in punta di piedi, senza invadere fisicamente lo spazio della scultura.

Fu in seguito a questa esperienza (soprattutto dalle sessioni fotografiche) che nacque in me la volontà di lavorare anche con la video arte, di genere tendenzialmente astratto. Spendo solo una parola per ricordare la prematura scomparsa, nel 2016, di un maestro, mentore e amico.

7) “Adattivo”. Un termine misterioso…


L’ultima fase del mio percorso mi ha portato a ricercare una più profonda connessione tra scrittura e live electronics, inaugurando la serie degli Adaptive Studies. In realtà questa voglia di approfondire l’interazione mi ha sempre affascinato e avevo iniziato a sperimentarla nella revisione (2015) de “I segni del tempo”.

Allora ho provato a progettare una serie di opere aperte con queste caratteristiche:

adattive (in grado cioè di adattarsi a certe condizioni esterne e/o ai loro mutamenti), in cui  però sia possibile il controllo di determinati aspetti temporali, (in primis, ma non solo, la modulazione della densità degli eventi nel micro e macro livello);

che consentano e realizzino ciò che M. Lupone definisce “stile” (invarianza organizzativa del materiale sonoro);

interattive, ossia in forma dialogante con uno o più esecutori;

in cui le azioni possibili, sia da parte dell’esecutore sia da parte del sistema, non siano predeterminate; altrimenti si tratterebbe semplicemente di assegnare un coefficiente di probabilità a una delle diverse possibili soluzioni;

che siano in grado di reagire a uno stimolo diretto e simulino un certo grado di memoria del passato prossimo (attraverso la scrittura?);

che siano in grado manipolare strutture simboliche (frammenti di partitura sia in input che in output);

che siano in grado di rilevare alcuni comportamenti dell’esecutore (ad es. la dinamica media, la densità di eventi prodotti etc.);

Cosa significa tutto questo? (Sul mio sito, precedentemente citato, è possibile scaricare l’articolo completo che spiega il progetto). L’idea, la sceneggiatura, è questa: nulla è precostituito, tranne la prima frase che l’esecutore suonerà. Dopodiché il sistema di live electronics inizia a rispondere, sulla base di ciò che lo strumentista ha suonato, lo strumentista a sua volta risponde sulla base di ciò che ascolta dal sistema, in un mutuo gioco di suggestioni, negazioni, inseguimenti.

Sicuramente un progetto molto ambizioso (e impegnativo…), che mi ha costretto anche a riformulare il modo di scrivere per strumento, cercando delle tecniche compositive che potessero essere bidirezionali, ossia combinabili sia per la scrittura strumentale sia per la elaborazione elettronica. In pratica un sistema di piccole cellule “adattive” che possono circolare in un sistema più grande, formato da uomo e macchina. Mi piace pensare che questo progetto in piccola parte si strutturi come il cervello umano: un insieme di sistemi indipendenti, che dialogano tra loro e che condividono memoria e conoscenza.

In conclusione, vorrei solo aggiungere due parole sull’attività di insegnamento: sono profondamente grato a tutti i miei studenti passati, presenti e futuri per avermi stimolato e costretto a formulare esempi, strategie, ipotesi e progetti che probabilmente da solo non sarei riuscito a concepire. Credo di aver imparato in egual misura dai miei insegnanti e dai miei studenti.

Le immagini sono pubblicate per gentile concessione di Riccardo Dapelo

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