Intervista a Enrico Lisei

Enrico Lisei – Foto: Angelo Lavizzari

Chi è Enrico Lisei?

Eh..bella domanda! Potrei partire dal curriculum, ma quello lo trovi su wikipedia o sul sito www.enricolisei.it. Vediamo… potrei dirti che è un uomo che per buona parte della sua vita e ancora adesso, segue le sue passioni, si diverte, legge tanto e si pone domande, dubbi, su quale sia la nostra funzione in tutta questa realtà che chiamiamo mondo o vita. Anche se a volte cedo alla malinconia, ho la fortuna di essere un ottimista.

In questo periodo, a parte la gioia di vedere pubblicato il terzo album Leggero, sono ancora inquieto e triste per la vicenda tragica del Ponte Morandi. In primis per le vittime, poi per il fatto che la mia infanzia l’ho passata proprio lì sotto; mia madre vive ancora oggi al limite della zona rossa.

Posso poi aggiungere di essere curioso verso qualunque forma d’arte e interessato alle storie delle persone per un senso di comunità e solidarietà germogliato fin quando ero piccolo, come mi è successo anche con la musica d’altronde.

Leggiamo dalla tua wikipagina: cantautore, psicologo e terapeuta. Quale significato ha oggi il termine “cantautore” e quanto ha pesato sulla tua maniera di scrivere e sulla tua creatività essere psicologo e terapeuta? Se parli di umanità per scrivere canzoni, puoi avere, una riserva enorme di materiale quasi inesauribile se osservata con gli occhi del terapeuta…

Se andiamo a vedere, il termine cantautore oggi ha un significato diverso da quando iniziai, cioè nel 1982 vincendo un concorso di Teddy Reno e Rita Pavone che mi portò a firmare una opzione discografica con la RCA. Io sono cresciuto in un epoca in cui il cantautorato era un qualcosa di “alternativo” ad un certo tipo di musica più “leggera”, il cantautore andava ascoltato e stimolava il pensiero, la riflessione critica anche con canzoni apparentemente semplici; era un momento storico dove la musica aveva un vero spazio per l’ascolto e non mi riferisco solo ai cantautori, ma anche ai musicisti come i Genesis o i Pink Floyd. Purtroppo questo spazio adesso non c’è quasi più, perché tutto si è velocizzato e un po’ appiattito. Quanto ha pesato il mio essere terapeuta sulla mia creatività di cantautore? In un primo momento, da ragazzo, non immaginavo nemmeno di diventare psicoterapeuta e quindi a quel tempo ti avrei detto..cosaaa? Oggi ripensandoci ti dico, si, molto. Questo si collega a quello che dicevo prima, cioè che sono sempre stato interessato alle storie delle persone, ai loro desideri che scoprivo essere parte di me; ho anche sempre trattato temi dell’amore, in tutte le sue forme dal sociale al privato. Direi soprattutto che la creatività arriva a getto continuo quando ti accorgi come uno stesso desiderio possa essere realizzato in tante forme quante sono quelle in cui si manifesta l’umanità.

Nel 1993 arriva l’esperienza a Sanremo, un momento che molti giovani artisti vorrebbero vivere. Rispetto ad allora, cos’è cambiato in questi venticinque anni e cosa ci si aspetta adesso da un artista che si affaccia alla cosiddetta notorietà?

Sanremo è stata una esperienza straordinaria. Fui scelto da una commissione dove c’erano persone di cui avevo una grande stima come Pino Donaggio, Sergio Bardotti, Carla Vistarini, Mario Pezzolla, oltre ovviamente a Pippo Baudo. Per me il solo fatto di essere stato scelto fu un successo, oltretutto si trattava di affrontare quel palco che sognavo da bambino. Nell’esibizione pensai che dovevo suonare per il pubblico nel teatro, anche perché il solo pensiero di essere visto da milioni di persone mi terrorizzava. Andò bene per la critica, per il teatro, meno bene per i voti da casa, forse perché il pezzo non era proprio da Sanremo, fu un errore mio e del discografico che non supportò bene il progetto dopo il festival. Comunque c’è da dire che le aspettative su di un artista che partecipava al festival di Sanremo erano alte, cariche di ansia e di tensione, cosa che adesso mi pare quasi paradossale per una passerella di canzoni, anche se bisogna dire che è sempre stato un grande business per impresari e discografici. Sbagliare Sanremo significava non avere tournee, o uscire dal giro in breve tempo.

Oggi a mio parere, è rimasta l’unica vetrina per nuove canzoni, ma vuoi per il fatto che da festival si sia trasformato in show, vuoi per la nascita dei talent (su cui i discografici fanno più affidamento perché non hanno più spese promozionali per un artista di solito giovanissimo, dal momento che quest’ultimo, se inserito nel programma, ha mesi di spazio televisivo assicurato), non ha più quella importanza che aveva un tempo. Però il giovane che esce dal talent deve assumere un certo ruolo: è vero, il marketing c’è sempre stato, ma oggigiorno sembra essere l’unica cosa importante per questa discografia agonizzante. Mi sembra che l’autenticità di chi scrive e canta le proprie canzoni non sia quasi presa in considerazione da questo tipo di format, di conseguenza ci saranno magari cantautori originali in giro che non ascolteremo mai. Oggi attraverso internet ci sono nuovi canali per esprimere altre forme di musica. E’ un mondo più complesso, con più stimoli . Il problema è che l’inflazione della musica porta alla sua svalutazione (come accade in economia con la moneta) e la gente si trova a non saper più cosa scegliere non essendo valorizzati gli artisti di qualità.

Enrico Lisei – Foto: Angelo Lavizzari

Abbiamo ascoltato le tue canzoni, letto i tuoi testi. L’ironia, un concetto del quale spesso si abusa ma che racchiude in sé forse la soluzione a tanti dei mali di ogni tempo, la fa da padrona. Brevemente, cosa pensi dell’ironia e in che misura può essere utilizzata come farmaco salvavita?

Shakespeare diceva “Chi non scherza è un gran buffone”. In quello che lui chiama scherzo io ci vedo ironia. Intendo proprio quella capacità di vedere le cose in maniera da non prendersi troppo sul serio perché la vita ha mille sfumature. Non intendo il sarcasmo, che porta con sé l’amarezza di chi è sempre ostico e mai in pace col mondo, ma l’ironia. Affrontare le diverse situazioni in modo ironico denota una capacità critica e riflessiva profonda che può essere usata come vero e proprio farmaco salvavita. La vita per quanto bella, è piena di curve e non avere senso dell’ironia significa aspettarsi sempre un rettilineo dietro la curva con i rischi conseguenti che potete immaginare. Ironia è sintomo di intelligenza… e non lo dico perché la uso io ..eh ..eh ..eh.

Sempre dal tuo profilo, leggiamo delle tue numerose collaborazioni. Tra le tante, ne scegli una da raccontarci?

Posso a raccontarvi l’ultima. In questi anni in cui non facevo dischi ho sempre scritto canzoni. Ogni tanto sentivo diversi editori, tra cui lo storico Ed Curci con cui sono sempre rimasto in ottimi rapporti.

Avevo fatto un provino esagerato di una canzone e dico esagerato perché sembrava già pronto per un vero e proprio disco. Dopo averla inviata all’editore, niente! Una mattina mentre ero a fare una formazione per colleghi psicologi mi arriva una telefonata: “Ciao sono Gianni Morandi, ho sentito la tua canzone e mi piace, la vorrei registrare nel prossimo cd”. Una bella emozione: un grande cantante che canta una mia canzone la quale (nella mia presunzione da cantautore ) non considero una canzonetta estiva. Gianni canta con una naturalezza invidiabile ed è una persona così come la vedi anche sul palco. Ci incontrammo la prima volta, dopo la telefonata in autostrada, in un autogrill per andare insieme nello studio di registrazione che si trovava in Toscana. Lavorammo insieme nello studio e lui, molto umilmente mi chiedeva le note precise della parte melodica. Diceva: “senti Enrico ma qui è così o così ?” intonando due note singole e risposi: “non mi ricordo mi sembra la seconda”, così lui: “Ho capito ma è un salto di decima! Come lo fai tu?” ed io: “Si, ma sei tu Gianni Morandi!”

Nella conferenza stampa, in un gioco di menaggio (n.d.r. “presa in giro”, per i non liguri), lui raccontò che la canzone la cantavo meglio io, e io dissi che lui non la faceva proprio bene.

Quando arrivammo allo studio mi presentò al fonico come l’Enrico della canzone Canzoni stonate, io rimasi spiazzato e il fonico mi chiedeva cose a riguardo, fu divertente. Questo menaggio è tipico di Gianni, in una competizione continua, sana. Mi raccontò che questo tipo di gioco si era abituato a farlo con l’amico mai dimenticato Lucio Dalla.

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