Intervista a Chiara Ferraris

La scrittrice ci parla del suo romanzo d’esordio L’impromissa.

Chiara Ferraris, foto di Gianluca Russo

Chi è Chiara Ferraris?

Direi essenzialmente una persona che non sa stare ferma. Sono insegnante di scienze, sono una mamma, un’appassionata lettrice e, fino a qualche tempo fa segretamente, anche una scrittrice.


Parliamo de L’impromissa, il tuo romanzo d’esordio.

È un romanzo nato dal desiderio di portare fino in fondo un’idea precisa: una protagonista che fosse molto sfaccettata, ma, soprattutto, vera. Piena di paure, dubbi, che si detta regole per sopravvivere a situazioni più grandi di lei, ma che poi si butta a occhi chiusi, se ci sono in gioco le emozioni. Così è nata Alice, una ragazzina che, all’inizio degli anni Venti, si trova sempre in movimento, passa dalla casa della zia materna all’orfanotrofio e da lì viene adottata da una famiglia di contadini, come aiutante. Una ragazzina che si troverà a ricostruire il concetto di famiglia molte volte,nella propria vita, e a chiedersi quanto peso dare ai propri sentimenti. Il romanzo si sviluppa su due piani temporali differenti: gli anni del Ventennio fascista, con Alice, e nel presente, con Agata, la pronipote che scopre i diari dell’antenata e con essi una parte della storia della sua famiglia che non conosceva.

La scrittura è sicuramente un fatto personale, così come la lettura. Uno scrittore “si legge” mentre scrive e, quindi, possiamo dire che si trovi in una posizione privilegiata rispetto a quella del semplice lettore. Condividi questo aspetto dello scrivere?

Trovo nella scrittura qualcosa di molto istintivo e naturale, per cui, mentre scrivo, non mi faccio molte domande su quanto io attinga alla mia vita personale. Succede dopo, di solito. Mi accorgo di guardare attraverso gli occhi dei miei personaggi con una particolare luce sugli eventi, anche quelli molto distanti dal mio vissuto. Ma in fondo un libro è di chi lo legge, ognuno pronuncia le parole delle pagine che legge con la propria voce, le fa sue, diventano un fatto personalissimo e legato alla propria esistenza.

Le parole sono cose, un concetto che si presenta più volte in letteratura ed è affrontato da autori di diversa provenienza e formazione.
Quanto, per te, sono importanti le parole – oltre a quelle che scrivi – e quanto possono modificare il corso di un’esistenza?

Le parole, la loro forma, il suono che ne deriva, sono qualcosa di unico e irripetibile. Per questo ce ne sono alcune più giuste di altre, anche se molto vicine come significato. È un aspetto che mi affascina molto, e che vorrei poter approfondire.

Non so se sia così per tutti, ma io do molto peso alle parole che dico e a quelle che mi vengono rivolte, per questo reputo sia fondamentale rivolgersi agli altri sempre con estrema cautela. Si può esprimere un’opinione, ad esempio, nei modi più disparati: sarebbe saggio optare sempre per quello più gentile.

Ne L’Impromissa, senza anticipare nulla della storia che hai scritto, vi sono “parole dentro le parole” e sembra che il romanzo sia costruito
proprio attorno a dialoghi, non solo affidati alla voce. Ti trovi d’accordo?

L’equilibrio tra la parte dialogata, la trama, la voce narrante non è sempre semplice, ma ci vuole. E’ come una ricetta: la dose giusta di ogni ingrediente.

Chiara Ferraris, foto di Gianluca Russo

Grazie alla fase di lavorazione con l’editor, un preziosissimo punto di vista, spero di aver raggiunto questo delicato equilibrio, ne “L’impromissa”, anche se poi l’opinione più indicativa è quella dei lettori e lì, si sa, gioca anche molto il gusto personale.

Tendenzialmente io amo molto i dialoghi, permettono di definire meglio i personaggi, di trasmettere stati d’animo senza dichiararli apertamente, di dare velocità alla lettura, ma sono anche difficili da costruire.


Il tuo romanzo non si ferma alla semplice narrazione ma, tra le righe, aleggia un afflato poetico. Le persone, i luoghi, i caratteri vengono presentati facendo sempre in modo che il lettore possa visualizzare con il proprio occhio interiore le situazioni narrate nel romanzo e, quindi, riscrivere con la propria sensibilità la sceneggiatura. Emerge così la poesia. Si dice spesso che essa sia bellissima e salvifica, perchè inutile.
Ti ritrovi in questo?


Trovo la poesia una parte imprescindibile della mia vita. C’è poesia nelle parole, come vengono usate, affiancate, in modo che fluiscano come un fiume o, talvolta, come un rigagnolo, c’è poesia nella natura, nelle note musicali, nei momenti intensi della vita. La poesia è ovunque, e per me ha una grande utilità: nutre l’anima, la scioglie dal vincolo del materialismo, dalla ruota del criceto impazzito in cui siamo costretti a correre tutti i giorni.


Cosa rappresenta per te la terra, personaggio che ricopre un ruolo così importante nel tuo racconto?


La terra non poteva che essere un elemento importante del romanzo, dato che ho scelto di parlare di una famiglia di contadini, che vive di quello che viene dalla terra. Per me rappresenta l’essenzialità, una riscoperta della propria vera origine; il contatto con la terra, essere in accordo con lei, con le sue stagioni, i suoi ritmi, molto più lenti e imprevedibili di quelli che noi ci imponiamo, riavvicina l’uomo a se stesso. O almeno, per me è stato così.


Stai lavorando a nuovi progetti?

Il romanzo ha preso vita cinque anni fa ed è stato come aprire un rubinetto: da allora le idee, le parole, hanno cominciato a fluire da me con una velocità pazzesca. Quindi sì, continuo a scrivere. Speriamo che diventino progetti.

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