Il duo Faravelli/Burrone

Stefano Faravelli (piffero) e Matteo Burrone (fisarmonica)

Chi sono Faravelli e Burrone?

Due individui rapiti dagli extraterrestri in giovane età, a 18 anni di distanza l’uno dall’altro. Al rispettivo ritorno hanno scoperto di essere scelti come papabili successori e portatori della loro cultura musicale tradizionale.

Scherzi a parte, due normalissime persone con una smisurata passione per la cultura musicale del loro territorio, ossia le Quattro Province (Pavia, Alessandria, Piacenza, Genova). Ci siamo conosciuti sul territorio io, Stefano, originario dell’alta valle Staffora, precisamente di S.Margherita, mi occupo di questa realtà da circa 32 anni e Matteo, anch’egli originario della medesima valle, precisamente di Negruzzo, sebbene molto più giovane, ha all’attivo vent’anni di carriera. Per quello che riguarda la nostra formazione, data la differenza d’età, abbiamo seguito percorsi leggermente diversi: Matteo si è interamente formato con il pifferaio Stefano Valla dall’età di 6 anni, per poi intraprendere uno studio tecnico dello strumento. Stefano si forma prevalentemente come autodidatta, anche se guarda a Stefano Valla come riferimento stilistico.

Stefano Faravelli
Matteo Burrone

Il repertorio del duo rispecchia quello che è il patrimonio consolidato delle accoppiate pifferi-fisarmonica o avete introdotto novità?

Principalmente si, nel senso che abbiamo guardato al passato più e meno recente per gli elementi stilistici e per imparare il repertorio così come patrimonio consolidato, come lo avete giustamente definito. Dopodiché, con il passare degli anni, dal 2010, anno in cui ci siamo incontrati, ci siamo limitati ad arrangiare alcuni brani della tradizione più recente, con armonie e stilemi richiamanti la musica jazz, con tutto rispetto parlando per i jazzisti.

A Matteo: ti abbiamo sentito cantare alla bujasca, brani dolcissimi, dove la musica antica va a braccetto con le sonorità più attuali. In che modo il patrimonio vocale dell’area appenninica ha influenzato il tuo essere musicista?

Devo dire che, purtroppo o per fortuna, mi sono accorto relativamente tardi che quello che consideravo cultura musicale o canora era patrimonio di tutta un’area geografica: quel che avete sentito cantare da me o da altri e che denominiamo evidentemente e in ugual maniera canzoni alla Bujasca, sono le canzoni che mia mamma Lauredana mi cantava per farmi addormentare da bambino e che mio papà Elio sentiva in loop nello stereo, quello a “cassette” e più avanti nel lettore CD della nostra macchina. Sono le canzoni che mio zio Claudio cantava in giro per casa e che ad oggi con Stefano, mia sorella Chiara (che canta meravigliosamente bene), i miei cugini Pietro e Yuri e tanti altri cantiamo in auto nei nostri viaggi. Per questo motivo, tutto questo grande raccoglitore di canzoni ha influito in modo naturale su di me, ma più che sul mio essere musicista, sul mio essere il Matteo che sono oggi.

Cantare alla bujasca…

A Faravelli: parliamo dello strumento che suoni (il piffero). Quali le sue caratteristiche e chi, ancora oggi, costruisce pifferi?

E’ un areofono ad ancia doppia, progenitore dell’oboe. Ad oggi, che io sappia, i pifferi vengono ancora costruiti dal mitico Ettore Losini detto Bani, che è anche un bravissimo suonatore, e da Stefano Mantovani, eccellente artigiano appassionato da sempre della nostra musica; personalmente oggi suono un suo strumento .

La musica per piffero e fisa è evidentemente funzionale. A differenza di altre forme di musica popolare esistono settori del repertorio dedicati a occasioni particolari: matrimoni, feste dei coscritti, feste di paese, celebrazioni comunitarie. Potete raccontarci un po’ come viene utilizzato il repertorio all’interno delle comunità in cui viene normalmente eseguito?

La musica delle Quattro Province, come sicuramente avrete sentito, è considerata uno dei cinque repertori musicali autoctoni della penisola italiana; conseguentemente il legame con il territorio in cui è nata e in cui si è sviluppata è molto forte. È inevitabile che determinati momenti tipici del tessuto sociale e della quotidianità vengano raccontati in musica attraverso particolari tipi di repertorio. È il caso dei matrimoni che evocano a sé un nutrito repertorio sia orale che strumentale con brani tipo la Sposina e la Bella si marita, accomunati dalla melodia all’unisono di piffero e voce; oppure il carnevale, festa particolarmente sentita su tutto il territorio e occasione imperdibile per pantagrueliche libagioni, prima di arrivare alla Quaresima, caratterizzata dal classico ballo della Povera Donna. Ovviamente piffero e fisarmonica rappresentano poi la spina dorsale sonora di tutto un territorio: tutte le feste e sagre – o quasi – sono animate da questo tipo di musica. Quindi, a differenza di alcuni repertori che sono una riedizione, il nostro rappresenta una vivace continuità con il passato; sostanzialmente è dal 1500 che nelle nostre valli non si è mai smesso di suonare questo tipo di repertorio.

Flavio Oreglio e gli Staffora Bluzer

Progetti ai quali state lavorando?

Anima Popolare con Flavio Oreglio è uno spettacolo rievocativo e modernissimo al tempo stesso. Flavio Oreglio e gli Staffora Bluzer (Stefano Faravelli, Matteo Burrone, Daniele Bicego, Giacomo Lampugnani e Cristiano Giovanetti) riscoprono la vivacità dei colori musicali e delle tematiche popolari lombarde e con questo spettacolo propongono il risultato di un divertimento nato quasi per caso al Circolo dei Poeti Catartici di Pregola (Passo del Brallo – PV) nell’agosto del 2017.

Lo spettacolo, però, non è soltanto un tributo. Infatti la sperimentazione sonora e la nuova veste dei brani storici hanno aperto la strada anche a proposte originali, mantenendo lo stesso vestito acustico e arricchendo lo show con brani inediti. Una performance da assaporare col sorriso sulle labbra.

Contaminazione possibile? Come possiamo immaginare la musica delle Quattro Province in un contesto attuale?

Domanda difficile… Pensiamo che la contaminazione sia sempre possibile purchè praticata in modo consapevole: bisogna avere una conoscenza approfondita del repertorio che si va a contaminare perché questo può permettere di trovare un giusto equilibrio tra un linguaggio musicale tipico, spesso ancestrale, e uno più attuale. Nelle nostre valli, ad inizio ‘900, con l’introduzione della fisarmonica (il piffero fino a quel momento suonava in duo con una cornamusa detta “musa”) è avvenuto proprio un percorso di questo tipo.

Venendo alla seconda parte della domanda, a cui è ancor più difficile rispondere, possiamo dirti che il territorio da cui questa musica trae linfa vitale sta vivendo una crisi senza precedenti: lo spopolamento e l’abbandono inesorabile delle zone montane si ripercuote inevitabilmente sulle dinamiche che da sempre regolano la nostra musica; fortunatamente però ci sono diversi e bravi giovanissimi suonatori grazie ai quali, in un certo senso, la tradizione è salva. Secondo noi, che ormai ci reputiamo suonatori “anziani”, spetterà a loro compiere le scelte che permetteranno alla tradizione di adattarsi a questo nuovo contesto.

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Trio Birò

Il Trio Birò – da sinistra: Edoardo Grassi, Arianna Ferrante, Alessandro Battafarano

Salve, grazie per averci concesso questo spazio!

Noi siamo il Trio Birò, Arianna Ferrante (Arya Del Rio) alla voce, Alessandro Battafarano (Zio Bath) alla chitarra ed Edoardo Grassi (Piccolo Edo) al basso, direttamente da una piccola cittadina costiera in provincia di Roma.

Com’è nato il Trio Birò?

Io (Arya), studio canto jazz, ma da tempo ero alla ricerca di un chitarrista con cui riarrangiare brani più moderni e cantare un repertorio che spaziasse dal pop al blues. Grazie al passaparola, io, Ale ed Edo ci siamo incontrati poco più di un anno fa in un piccolo bistròt della nostra città, da cui poi abbiamo preso il nome!

Quali caratteristiche vi contraddistinguono?

Veniamo da generi musicali differenti: io -voce-, dopo un’adolescenza decisamente pop (Celine Dion, Whitney Houston, Alanis Morissette), sono approdata al jazz-soul, Alessandro -chitarra- è l’anima “social” pop-rock del gruppo, ed Edoardo -basso- è proprio come lo strumento che suona: in apparenza timido, è essenziale al sound del trio. È anche un eccellente armonicista e quando parte un blues non lo ferma più nessuno! Ci piace dunque riarrangiare brani molto diversi fra loro e proporli in occasione di serate musicali o eventi privati. Un’altra caratteristica che mi piace molto è l’estrema passione e amore per la musica che ci ha portato a delle collaborazioni davvero speciali.

Puoi farci un esempio?

Il Trio Birò al reparto di Oncologia Pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma

A gennaio 2019 abbiamo conosciuto la onlus Officine Buone che, grazie al progetto #specialstage #donailtuotalento, porta negli ospedali d’Italia la musica: diversi gruppi si “sfidano” a suon di note e sono proprio i pazienti dei diversi reparti a fare da giudici e a decretare un “vincitore”! Il Trio Birò ha suonato nei reparti di oncologia pediatrica del Policlinico Agostino Gemelli e del Policlinico Umberto I di Roma. Un’esperienza unica, che ci ha fatto toccar con mano l’estremo potere della musica, che ha donato sorrisi e ci ha cambiati nel profondo.

Progetti futuri?

Lo scorso weekend abbiamo avuto il piacere di suonare in occasione della festa patronale della nostra città, siamo anche andati in onda sulla tv regionale, il che fa sempre piacere, specie per un neonato gruppo che vorrebbe farsi conoscere. Per l’estate 2019 abbiamo diverse serate in programma in locali del litorale romano. Ci piacerebbe inoltre continuare a portare la musica nei luoghi in cui ce n’è più bisogno.

La cosa più importante? Continuare a suonare, sempre e comunque, perché un musicista senza la sua dose quotidiana di note si spegne.

Dove possiamo ascoltarvi?

Se volete ascoltarci potete seguirci sui social, dove troverete video dei nostri live ed estratti di prove in saletta:

FB: www.facebook.com/triobiro

IG: @triobiro

Buona Musica dal Trio Birò

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Intervista a Lorenzo Delussu, suonatore di “launeddas”

Lorenzo Delussu, foto di Gloria Congiu

Parlaci un po’ di te, dove vivi e come entra nella vita di una persona la musica popolare, quella ben radicata sul territorio dove uno vive.

Intanto, un saluto a tutti i lettori, e un ringraziamento a voi per avermi chiesto di fare insieme questa chiacchierata.
Sono Lorenzo Delussu, ho 27 anni e vengo da Goni, un piccolo paese della provincia di Cagliari. Coltivo una grande passione per tutto ciò che riguarda la mia terra, le sue tradizioni, la sua storia e il rispetto dell’ ambiente… A tal proposito, Vi invito a visitare il mio paese, se ne avete l’occasione. Ospita un bellissimo parco archeologico, il sito di “Pranu Muteddu”.

Ovviamente le zone di interesse storico e i bellissimi paesaggi li si può trovare in ogni angolo della Sardegna. L’entroterra è uno spettacolo… Non siamo
solo mare… E aggiungerei: menomale! 🙂

Parlando della nostra musica popolare, posso tranquillamente affermare come essa abbia la capacità di “entrare in automatico” dentro di ognuno di noi: ovviamente ogni sardo la percepisce e la coltiva con un differente livello di interesse e di passione, come è logico che sia.
Mi spiego meglio: nel mio paese, ma similmente in quasi tutte le comunità, dalla primavera sino alla metà di Ottobre, è un continuo brulicare di feste, in cui, ovviamente, i balli e i canti tradizionali non mancano…anzi guai se mancassero…
C’è chi è molto interessato a questi eventi e partecipa attivamente a danze e canti. Ma anche chi è meno partecipe entra lo stesso a far parte del “gioco”.
Un aspetto che mi rende molto orgoglioso è che i partecipanti (attivi o meno) sono in buona parte giovani: c’è chi interviene con grande entusiasmo a ballare, e chi suona gli strumenti della tradizione. In questo ultimo periodo, molti giovani hanno sentito la voglia di avvicinarsi ai cosiddetti “organetti diatonici”, accompagnati e seguiti da maestri molto esperti e generosi.

Come ti sei avvicinato alla musica popolare sarda e in particolare alle “launeddas”?

Devo dire la verità: io e le “launeddas” ci siamo trovati per caso. È stato, a tutti gli effetti, un incontro casuale: fu nell’Agosto del 2005, durante la serata organizzata in occasione della festa patronale del mio paese, che ebbi la fortuna di assistere all’esibizione si di un “autentico” suonatore di launeddas. Io rimasi estasiato dal suo suono! Pertanto, sull’onda dell’entusiasmo, chiesi subito ai miei genitori di aiutarmi a cercare un insegnante di quello strumento… Ma lì per lì non mi presero molto sul serio… 🙂

Nel frattempo iniziai la prima superiore, e venni a sapere che la scuola aveva assunto, come collaboratore tecnico, un uomo che per passione suonava la fisarmonica, e soprattutto la “launedda”. Non persi un attimo del mio tempo: appena ci presentammo gli chiesi subito il suo aiuto. Ricordo ancora le sue parole: “Lorenzo, se davvero hai intenzione di iniziare questa esperienza, io ti consiglio di andare alla “scuola civica”: lì troverai un grandissimo Maestro, Luigi Lai “.

Rimuginando sul dialogo appena avuto, tornai a casa, e raccontai a mia madre dell’accaduto. Lei è sempre stata una grande appassionata di tradizioni e canti popolari: penso proprio di aver preso da lei 🙂 Le chiesi se conoscesse questo signor Luigi Lai… Ricordo ancora molto bene la sua espressione: fece un sorriso e aggiunse: “ E’ solo il migliore che c’è !! “.
Da quel momento mi avvicinai a Luigi, che è sempre riuscito a traferirmi il sentimento e la dedizione verso lo strumento.
Da 3 anni a questa parte, ho deciso, per ampliare i miei orizzonti musicali, di seguire lezioni di fisarmonica con un altro grande Maestro: Bruno Camedda.

Le “launeddas” richiedono una tecnica esecutiva di emissione del suono molto particolare. Puoi spiegarci come viene prodotto questo suono straordinario?

La tecnica utilizzata è quella del “fiato continuo”: il suonatore soffia senza sosta all’interno dello strumento, formando una riserva d’aria con le guance. Quando la “scorta”
d’aria sta esaurendosi, il suonatore inspira aria col naso: l’aria, come già detto, deve essere emessa in continuazione dalle guance, affinché lo strumento possa suonare.

Lorenzo Delussu

Si tratta di due movimenti che devono essere indipendenti l’uno dall’altro. Sembra un’azione difficile da svolgere, ma, se uno mette impegno e dedica parte del suo tempo, dopo un po’ acquisisce automaticità.

Come vengono costruite le “Launeddas”?

Prima di rispondere a questa domanda, vorrei fare una precisazione: esistono tanti tipi di “launeddas”. Nel dialetto sardo parliamo di “cuntzertus” per descriverle nell’insieme. Troviamo: “Fiorassiu”, “Punt’e Organu”, “Mediana”, “Mediana a Pipia”, “Mediana a fiuda”, “Spinellu” e “Simponia”.

Ognuno si differenzia dall’altro per la scala musicale che riesce a produrre.
Le launeddas sono costruite con la canna palustre, tagliata e raccolta solo in determinati periodi dell’anno. Lo strumento è costituito da 3 parti:
– il “basso”, in Sardo detto “su tumbu”, che svolge la funzione di “bordone”
– “Sa mancosa”, che è legata a “su tumbu”
– “sa croba”: dall’unione delle componenti precedenti
Non collegata direttamente a queste 3 parti ce n’è un’altra: “sa mancosedda”. Questa è il segmento da cui viene emessa la melodia.
Un altro componente, probabilmente il più complesso da costruire, sono le “ance”, in sardo detti “cabitzinnus”: si tratta di piccoli “cannellini” inseriti all’interno delle canne. Esse sono il “motore” dello strumento!
Se le altre componenti venissero costruite commettendo qualche eventuale errore nella struttura, ci sarebbe la possibilità di eseguire correzioni (spesso attraverso l’utilizzo di un bisturi). Per le “ance” vale la regola “o la va, o la spacca”. Non è soltanto un modo di dire, infatti finché il suono non è apprezzato dall’orecchio del costruttore/suonatore, lo strumento deve essere buttato e ricostruito dall’inizio.
Le “launeddas” devono essere intonati alla perfezione, che viene raggiunta solo grazie all’applicazione minuziosa della cera d’api all’interno delle “ance”. Inoltre, essendo composta quasi esclusivamente da canna, è assai sensibile agli sbalzi di temperatura. Dunque, anche l’accordatura è una pratica che richiede pazienza e tempo.

Com’è strutturato il repertorio tipico, e in che formazioni viene utilizzato il tuo strumento?

Il repertorio tipico comprende, principalmente, suonate a ballo, suonate per accompagnamento religioso e accompagnamento di canti tradizionali (“trallalera”, “mutettus”, “s’arrepentina”, “canzoni a curba”).
Per complessità e vastità di passaggi, sfaccettature, trilli e abbellimenti, il repertorio più difficile da eseguire è senza dubbio quello che riguarda i balli. Ovviamente anche gli altri repertori possiedono le loro difficoltà: insomma, non c’è nulla di semplice!

Lo strumento è impiegato anche in altri ambiti, come l’accompagnamento da balli, soprattutto quello “campidanese” o le formazioni etniche che ripropongono balli di varie zone della Sardegna. In questi casi, le “launeddas” si accompagnano ad altri strumenti, quali organetto, “trunfa”, chitarra, percussioni o fisarmoniche.
Col passare del tempo e l’evolversi della nostra comunità, si è affermato un altro tipo di utilizzo delle “launeddas”, che, a parer mio, merita davvero molto: quello fuori dal repertorio tradizionale. Si utilizzano le launeddas in ambiti Jazz, pop, etnopop, musica leggera o musica “world”: considero tutto ciò, qualcosa di stupendo, poiché fa comprendere, anche a chi non è originario dei nostri luoghi, quanta potenzialità ci sia dietro a queste semplici ed umili “canne”, che in realtà sono in grado di confrontarsi con le musiche di tutto il mondo.
Concludendo, vorrei ringraziarVi ancora per la gentilezza, sperando di essere stato esaustivo nelle risposte.
A SI BIRI IN SARDINNIA! (Ci vediamo in Sardegna!)

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Intervista a Chiara Ferraris

La scrittrice ci parla del suo romanzo d’esordio L’impromissa.

Chiara Ferraris, foto di Gianluca Russo

Chi è Chiara Ferraris?

Direi essenzialmente una persona che non sa stare ferma. Sono insegnante di scienze, sono una mamma, un’appassionata lettrice e, fino a qualche tempo fa segretamente, anche una scrittrice.


Parliamo de L’impromissa, il tuo romanzo d’esordio.

È un romanzo nato dal desiderio di portare fino in fondo un’idea precisa: una protagonista che fosse molto sfaccettata, ma, soprattutto, vera. Piena di paure, dubbi, che si detta regole per sopravvivere a situazioni più grandi di lei, ma che poi si butta a occhi chiusi, se ci sono in gioco le emozioni. Così è nata Alice, una ragazzina che, all’inizio degli anni Venti, si trova sempre in movimento, passa dalla casa della zia materna all’orfanotrofio e da lì viene adottata da una famiglia di contadini, come aiutante. Una ragazzina che si troverà a ricostruire il concetto di famiglia molte volte,nella propria vita, e a chiedersi quanto peso dare ai propri sentimenti. Il romanzo si sviluppa su due piani temporali differenti: gli anni del Ventennio fascista, con Alice, e nel presente, con Agata, la pronipote che scopre i diari dell’antenata e con essi una parte della storia della sua famiglia che non conosceva.

La scrittura è sicuramente un fatto personale, così come la lettura. Uno scrittore “si legge” mentre scrive e, quindi, possiamo dire che si trovi in una posizione privilegiata rispetto a quella del semplice lettore. Condividi questo aspetto dello scrivere?

Trovo nella scrittura qualcosa di molto istintivo e naturale, per cui, mentre scrivo, non mi faccio molte domande su quanto io attinga alla mia vita personale. Succede dopo, di solito. Mi accorgo di guardare attraverso gli occhi dei miei personaggi con una particolare luce sugli eventi, anche quelli molto distanti dal mio vissuto. Ma in fondo un libro è di chi lo legge, ognuno pronuncia le parole delle pagine che legge con la propria voce, le fa sue, diventano un fatto personalissimo e legato alla propria esistenza.

Le parole sono cose, un concetto che si presenta più volte in letteratura ed è affrontato da autori di diversa provenienza e formazione.
Quanto, per te, sono importanti le parole – oltre a quelle che scrivi – e quanto possono modificare il corso di un’esistenza?

Le parole, la loro forma, il suono che ne deriva, sono qualcosa di unico e irripetibile. Per questo ce ne sono alcune più giuste di altre, anche se molto vicine come significato. È un aspetto che mi affascina molto, e che vorrei poter approfondire.

Non so se sia così per tutti, ma io do molto peso alle parole che dico e a quelle che mi vengono rivolte, per questo reputo sia fondamentale rivolgersi agli altri sempre con estrema cautela. Si può esprimere un’opinione, ad esempio, nei modi più disparati: sarebbe saggio optare sempre per quello più gentile.

Ne L’Impromissa, senza anticipare nulla della storia che hai scritto, vi sono “parole dentro le parole” e sembra che il romanzo sia costruito
proprio attorno a dialoghi, non solo affidati alla voce. Ti trovi d’accordo?

L’equilibrio tra la parte dialogata, la trama, la voce narrante non è sempre semplice, ma ci vuole. E’ come una ricetta: la dose giusta di ogni ingrediente.

Chiara Ferraris, foto di Gianluca Russo

Grazie alla fase di lavorazione con l’editor, un preziosissimo punto di vista, spero di aver raggiunto questo delicato equilibrio, ne “L’impromissa”, anche se poi l’opinione più indicativa è quella dei lettori e lì, si sa, gioca anche molto il gusto personale.

Tendenzialmente io amo molto i dialoghi, permettono di definire meglio i personaggi, di trasmettere stati d’animo senza dichiararli apertamente, di dare velocità alla lettura, ma sono anche difficili da costruire.


Il tuo romanzo non si ferma alla semplice narrazione ma, tra le righe, aleggia un afflato poetico. Le persone, i luoghi, i caratteri vengono presentati facendo sempre in modo che il lettore possa visualizzare con il proprio occhio interiore le situazioni narrate nel romanzo e, quindi, riscrivere con la propria sensibilità la sceneggiatura. Emerge così la poesia. Si dice spesso che essa sia bellissima e salvifica, perchè inutile.
Ti ritrovi in questo?


Trovo la poesia una parte imprescindibile della mia vita. C’è poesia nelle parole, come vengono usate, affiancate, in modo che fluiscano come un fiume o, talvolta, come un rigagnolo, c’è poesia nella natura, nelle note musicali, nei momenti intensi della vita. La poesia è ovunque, e per me ha una grande utilità: nutre l’anima, la scioglie dal vincolo del materialismo, dalla ruota del criceto impazzito in cui siamo costretti a correre tutti i giorni.


Cosa rappresenta per te la terra, personaggio che ricopre un ruolo così importante nel tuo racconto?


La terra non poteva che essere un elemento importante del romanzo, dato che ho scelto di parlare di una famiglia di contadini, che vive di quello che viene dalla terra. Per me rappresenta l’essenzialità, una riscoperta della propria vera origine; il contatto con la terra, essere in accordo con lei, con le sue stagioni, i suoi ritmi, molto più lenti e imprevedibili di quelli che noi ci imponiamo, riavvicina l’uomo a se stesso. O almeno, per me è stato così.


Stai lavorando a nuovi progetti?

Il romanzo ha preso vita cinque anni fa ed è stato come aprire un rubinetto: da allora le idee, le parole, hanno cominciato a fluire da me con una velocità pazzesca. Quindi sì, continuo a scrivere. Speriamo che diventino progetti.

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Trallalero a Rapallo!

Paolo Castagneto ci racconta dell’Associazione Liguri Antighi – I Rapallin in occasione del concerto dei Giovani Canterini di Sant’Olcese che si terrà Sabato 27 Aprile alle ore 20.45 presso l’Oratorio dei Neri a Rapallo (Ge)

L’Oratorio dei Neri a Rapallo (Ge)

Dal successo ottenuto dal primo Raduno Internazionale dei Canessa del luglio 2007 e dal desiderio di coinvolgere altri “casati” locali, il 29 ottobre 2008 è stata costituita l’ Associazione “ Liguri Antighi – I Rapallin” .Un’ Associazione di persone il cui Casato è originario del territorio dell’antica Repubblica di Genova o dei suoi antichi possedimenti, la cui storia e/o presenza nel mondo dura da oltre cinque secoli.L’ Associazione è denominata “Liguri Antighi – I Rapallin” dal titolo del volume che riporta le memorie delle famiglie presenti nel territorio dell’ antica giurisdizione di Rapallo prima del 1528. L’ Associazione, inizialmente aperta alle sole persone originarie del territorio dell’ex Podesteria, poi Capitaneato di Rapallo, offre ora la possibilità di farne parte a chiunque lo desideri, purché dimostri “uno spiccato interesse per L’Associazione e ne condivida appieno gli scopi (art. 2 e 3 statuto sociale)”.Lo scopo dell’ Associazione è quello di promuovere, sostenere e difendere, mediante opportune e idonee iniziative, la valorizzazione della Storia Patria, della cultura, delle tradizioni, degli usi, dei costumi, delle parlate e di ogni altra specificità della Gente Ligure.Nell’ambito della propria attività, l’Associazione, oltre l’impegno di mantenere sempre viva la memoria della “ Gens Ligustica” e del suo glorioso passato e rendere onore ai suoi personaggi illustri, si impegna a sviluppare ed intraprendere iniziative di turismo culturale, con visite a luoghi d’arte, di valori paesaggistici, di cultura, di storia e di culto; con raduni nazionali ed internazionali di persone di uno o più Casati nonché con incontri, convegni, gemellaggi, scambi culturali, ricerche genealogiche, ecc.Da ottobre 2011, l’ Associazione pubblica un periodico con cadenza mediamente mensile dal titolo “I Rapallin” che, con una tiratura di 5000 copie, viene distribuito nelle località maggiori (Rapallo, Santa Margherita Ligure, Zoagli e alta Fontanabuona) dell’ex Capitaneato rapallino. Avvenimento più importante per l’ Associazione è l’ annuale Raduno dei Rapallin, quest’anno alla undicesima edizione. Concomitante al raduno è il conferimento del “Rapallino d’Oro”,assegnato a persone, enti, associazioni per meriti umanitari, imprenditoriali, culturali ecc.
Il Rapallino d’ oro 2019 sarà consegnato ad una Socia Casalinga centenaria come riconoscimento al merito del “lavoro casalingo”, specie quello svolto da lei quando non esisteva ancora alcun strumento meccanico ed elettrico costruito per alleviare la fatica di tale lavoro. Nell’ambito di questi festeggiamenti, l’ Associazione ha ritenuto di inserire il concerto de “ I giovani Canterini di Sant’ Olcese” come omaggio e riscoperta del canto popolare genovese ed in particolare del Trallalero.La sede del concerto sarà nel cuore del Centro Storico rapallese, nelle vicinanze del Palazzo Comunale dove sorge un piccolo complesso formato dalla Torre Civica e dalla Chiesa di Santo Stefano, attorniate da un grazioso giardino.La Chiesa di Santo Stefano, oggi chiamata Oratorio dei Neri in quanto sede della Confraternita Mortis et Orationis, è considerata la prima pieve di Rapallo e si ritiene edificata prima dell’anno Mille.Sede originaria della Cristianità in Rapallo, fu affiancata, nel 1459, dalla Torre Civica, simbolo delle libertà comunali. Dal 1910 la Torre è monumento nazionale.

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Intervista a Vladimiro Zullo


Vladi è il figlio di Giuseppe Zullo detto “Pippo” fondatore, insieme a Giuseppe “Pucci” Deliperi, dei Trilli, il più popolare duo folk genovese. Vladi oggi prosegue l’attività dei Trilli dopo la scomparsa degli ideatori del progetto musicale.

Vladi, parlaci un po’ di te e di questi nuovi Trilli

Sono sempre stato affascinato dalla musica, dalla più tenera età e, vivendo in casa con un musicista, era facile, per me, accedere a tutto il materiale disponibile. C’erano valanghe di dischi e musicassette e spesso, con o senza la presenza di mio padre, andavo a rovistare tra le sue cose e mi mettevo ad ascoltare di tutto: dalla musica francese di Edith Piaf, Aznavour e Brel, per poi cambiare totalmente genere e passare a Bob Geldof, Dylan o Elton John e i Beatles.

Amo l’arte in tutte le sue sfaccettature, apprezzo molto la scultura e la pittura, amo i colori e tutto quello che sia fonte di vita e mi trovo benissimo quando sono in mezzo alla natura.

Sono un comunicatore, mi è sempre piaciuto aggregare le persone e creare sintonia: sono uno dei pochi ad aver messo insieme artisti che, per varie vicissitudini, non si parlavano, e di questo vado orgoglioso.

Sono una persona molto sensibile, decisa e caparbia: quando decido che devo ottenere una cosa, difficilmente mi tiro indietro, finché non raggiungo gli obiettivi.

Chiaramente, sono un amante della musica genovese sin da quando ero bambino, anche se allora mi risultava difficile comprendere il dialetto.

Mi affascinava il canto delle squadre, quel trallalero genovese che ha sempre fatto da sottofondo alla mia vita.

Poiché mio padre ne era un grande cultore, di conseguenza mi aiutò a conoscere meglio e ad amare anche questa straordinaria forma di canto, che può essere considerata la madre di tutto quello che ne è conseguito, a partire dai primi autori come Marzari e Cappello, prima ancora di arrivare ai cantautori liguri contemporanei come De André.

A quella scuola si sono poi formati gli altri cantautori genovesi come Franca Lai, Piero Parodi e gli stessi Trilli.

Questi ultimi hanno avuto una sensibilità che ha permesso loro di traslare in chiave moderna un dialetto rimasto, fino ad allora, troppo radicato nel passato, potendo così avvicinare anche i più giovani.

Questa è la stessa prerogativa con la quale porto avanti il mio progetto, con un occhio di riguardo verso il passato, introducendo nuove sonorità: sperimentare e contaminare, per poter raggiungere sempre più pubblico.

I nuovi Trilli rappresentano una continuazione della formazione storica che porto avanti da oltre dieci anni.

Dopo la prematura scomparsa di papà, era rimasto un passo da compiere, quello di poter sperimentare qualcosa assieme.

L’idea c’era, la voglia anche, infatti spesso duettavo con lui nella nostra barca, il club ristorante Il Peschereccio, tragicamente affondato nello stesso anno della scomparsa di papà.

Non c’è stato il tempo, la malattia non ce l’ha permesso, ma gli promisi che mi sarei impegnato per portare avanti la sua grande eredità.

Certo, le difficoltà non erano poche: lo scetticismo dei più anziani, le critiche.

Adesso, però, la gente ha capito e apprezza quello che sto facendo con tanta passione e rispetto.

Per questo, mi avvalgo della collaborazione di alcuni musicisti. Negli ultimi anni la formazione-tipo è composta da: Fabrizio Salvini alla batteria e percussioni, Alberto Marafioti – il più anziano del gruppo – alle tastiere, Fabio Bavastro al basso, Valeria Saturnio al violino, Davide e Alessandro De Muro, papà e figlio, alle chitarre. Quest’ultimo, diciotto anni, potrebbe diventare il nostro erede musicale, viste l’interesse e la determinazione con le quali porta avanti insieme a me questo progetto.

Siamo tutti uniti da una grande passione e da tanti ricordi che ci legano alla tradizione genovese.

Tuo papà, insieme a Pucci, ha scritto una pagina importante della canzone dialettale genovese. Cosa è cambiato oggi rispetto ad allora? Mi spiego meglio: come è cambiato il modo di seguire la musica dei Trilli di oggi rispetto a quelli di ieri?

È sicuramente cambiato il modo in cui il pubblico si avvicina alla nostra musica. Una volta i Trilli erano ascoltati attraverso i dischi e le cassette, oggi con i CD.

Gli storici Trilli vendevano annualmente migliaia di dischi: stiamo parlando di numeri impossibili da raggiungere con la musica dialettale ai giorni nostri, poi in Liguria non ne parliamo.

Forse l’unica che riesce a conseguire risultati importanti è ancora oggi la canzone napoletana.

All’epoca, ascoltare musica era anche un modo per stare insieme, adesso lo si fa poco e, con l’avvento di internet, tutto è troppo veloce.

Non tutto il nostro pubblico ascolta abitualmente la nostra musica su internet e, infatti, preferisce venirci ad ascoltare dal vivo nei locali e nelle piazze dove ci esibiamo.

Abbiamo recentemente pubblicato sulle pagine di TrallalerOnline un articolo riguardante il tuo ultimo lavoro teatrale. Puoi parlarcene un po’ più in dettaglio?

Questo spettacolo è un viaggio a ritroso nel tempo, visto con gli occhi di un figlio che racconta la carriera del padre e del suo socio, parlando delle proprie esperienze personali vissute con loro.

Ci sono racconti della vecchia Genova, i profumi, i sapori della città, narrati attraverso filmati, testi e canzoni.

Si racconta di come i Trilli nacquero artisticamente, dei loro aspetti caratteriali, musicali e dei tanti amici che collaborarono con loro, dell’incontro con Faber in una sezione interamente dedicata a lui, nella quale prevalgono il contesto quotidiano e momenti condivisi con Fabrizio de André, quando lo conobbi negli anni Novanta insieme a mio padre.

Lo spettacolo è una storia che fa riflettere, sperare e non lascia indifferenti.

Attestati di stima, ottima risposta del pubblico e ottime recensioni tra le quali voglio ricordare quella di Paolo Colombo, giornalista de La7.

Progetti in cantiere?

Ci sono diversi progetti. Attualmente sto lavorando a un libro che si rifà parzialmente allo spettacolo teatrale, nel quale inserirò molti altre storie che riguardano Pippo e Pucci e che, per motivi di spazio, non ho potuto portare in teatro.

Racconterò della vita della mia famiglia, aspetti personali che tengo a inserire in questo lavoro perché ritengo di grande impatto emotivo.

Inoltre si sta lavorando, con la collaborazione di alcuni grandi artisti nazionali, alla realizzazione di un altro CD e a un progetto con Carlo Denei, cabarettista degli allora Cavalli Marci, autore di Striscia la Notizia. Partiremo da Genova, destinazione Sanremo e gireremo un docufilm durante tutte le tappe nelle varie località liguri.

Poi ci sarà una partecipazione in un film di cui non posso ancora parlare, un’altra esperienza che servirà a crescere ulteriormente. È bello affrontare nuove sfide e non porsi limiti.

La storia continua.

Ciao e grazie a tutti.

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…ruhe!…ruhe!

Intervista a Paolo Besagno

Paolo Besagno ha studiato Pianoforte con il M° Giuseppina Schicchi e Composizione e Musica Elettronica con il M° Riccardo Dapelo. E’ proprio la musica elettronica a caratterizzare la sua produzione, anche se da più di venticinque anni canta nel ruolo di contralto nella formazione di trallalero genovese “I Giovani Canterini di Sant’Olcese”.

Nel 1996 vince il Premio Città di Recanati – Nuove tendenze della canzone d’Autore con il brano “O trallalero canson de ‘na vitta” per squadra di canto popolare genovese. Nel 2009 il suo brano “In primo vere” per voci di bimbe e nastro magnetico viene selezionato ed eseguito a Emufest presso l’Accademia di Santa Cecilia in Roma. Nel 2015 il suo brano “Largo IV” per nastro magnetico e impianto di diffusione a 24 canali viene eseguito alla rassegna “Suoni Inauditi”, presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Pietro Mascagni” di Livorno. Sempre nel 2015 fonda con l’amico, libero organizzatore di suoni, Rinaldo Marti, il consort vocale“EthnoGenova”, collaborando alla realizzazione di un progetto per l’ascolto interattivo/immersivo del trallalero genovese.

Nel 2018 il suo brano “Witte flame” viene selezionato ed eseguito al festival Rimusicazioni di Bolzano.

Paolo Besagno, Sandro Secchi, Stefano Bosi

Parliamo di …ruhe…ruhe!

…ruhe…ruhe! è una riflessione o, per citare la frase che accompagna da anni questo lavoro, «un libero ragionamento sulla sofferenza».

Procediamo con ordine: vuoi raccontarci di cosa si tratta, a quale tipo di rappresentazione potrà assistere il pubblico?

E’ un’installazione multidisciplinare. Sul palco, tre musicisti – (Paolo Besagno: pianoforte, voce e elettroniche; Stefano Bosi: fisarmonica; Sandro Secchi: voce, chitarra, arrangiamenti – N. d. R.); la musica che si ascolta spazia dalla canzone d’autore all’elettroacustica. Il trio esegue otto brani in lingua genovese, mentre sullo schermo vengono proiettate immagini che hanno come filo conduttore la sofferenza dell’uomo, vista attraverso la lettura della passione di Gesù. Si passa da un ambiente prettamente tonale, tipico della canzone d’autore, a sequenze acusmatiche le quali, dal punto di vista dell’ascolto, si trovano agli antipodi rispetto alla prima. Unico brano esterno alla sequenza relativa alla Passione narrata nei Vangeli, è Tu dolcissima madre, cantato in tre lingue: greco antico – nella bella traduzione di Aldo Giavitto – genovese e italiano.

Cosa intendi per «lettura della Passione»?

I testi delle canzoni sono tratti dai Vangeli Sinottici, ma non si tratta di una vera e propria traduzione: potrei dire che sono delle ricostruzioni ambientali di quella che viene chiamata Via Crucis, pensata in genovese, riproposta al pubblico in tale lingua e sottotitolata in italiano.

Innovazione e tradizione, dunque?

Sì. Innovazione, se così possiamo dire, nell’uso della musica elettroacustica, a dire il vero ormai neanche più tanto innovativa e tradizione, nella canzone d’autore e nella la scelta delle immagini, ricaduta sulle Confraternite liguri con i loro Cristi e sulle Tele Blu, conservate al museo Diocesano di Genova – che ringrazio per averci permesso di pubblicarle – raffiguranti scene della passione di Cristo, dipinte su tela di jeans. Le immagini dei Cristi in processione sono di Andrea Giliberto mentre le Tele Blu sono ritratte in una serie di scatti di Massimo Barattini. Un’intera sequenza è dedicata a immagini dall’Africa, realizzate da Giancarlo Trovati. Le foto di apertura meritano una riflessione: si tratta di inquadrature del Ponte Morandi. Quando le scelsi, mai avrei pensato che un giorno sarebbero divenute il simbolo della grande sofferenza di un’intera città!

Tradizione è anche l’uso del greco antico in un brano, Ὤ ἡδιστε σύ μῆτηρ (Tu dolcissima madre – N. d. R.), lingua nella quale ci è pervenuta una grande parte di documenti dell’antichità e, tra questi, le Scritture.

Che ruolo hanno, nell’installazione, le Confraternite Liguri?

I cristezanti (dal genovese: portatori dei crocifissi – N. d. R.) partecipano all’installazione, portando un crocifisso sulla scena. Il Cristo viene tenuto in piedi, poggiato a terra, per tutta la durata del concerto e solo quando suoniamo l’ultimo brano, quello relativo alla resurrezione di Gesù, il portatore lo mette in crocco (la speciale cintura di cuoio che serve al portatore per sorreggere la croce – N. d. R.), come si dice tradizionalmente, e fa risuonare i canti, ossia le decorazioni floreali in oro, poste alla sommità dei bracci della croce. Queste decorazioni, costituite da fiori metallici dorati, scosse dai movimenti del portatore per tenere in equilibrio il crocifisso, emettono un suono caratteristico.

La sofferenza, un tema sempre attuale.

La sofferenza è nella natura dell’uomo. La storia che raccontiamo nel nostro concerto è universale, livella tutti sullo stesso piano. Non è necessario essere credenti per leggerla, si può infatti superare il concetto di Cristo-Figlio-di-Dio e pensare semplicemente a un episodio molto doloroso e comune: la storia di un uomo condannato, con molta probabilità, ingiustamente.

Quest’ignominia è stata applicata ciclicamente, in vari periodi storici compreso il presente, a intere porzioni di genere umano. In un primo momento …ruhe…ruhe! gravitava di fatto attorno alla tragedia della Shoah, ma presto ci siamo accorti che, purtroppo, tale connotazione era riduttiva.

Hai accennato alla Shoah. Il titolo …ruhe!…ruhe! Affonda le sue radici proprio là, nello sterminio degli ebrei?

…ruhe!…ruhe! è un intercalare di leviana memoria. L’ho letto per la prima volta tra le pagine di Se questo è un uomo di Primo Levi. In tedesco vuol dire «silenzio!», «state zitti» o qualcosa di molto simile. Era una delle tante voci che si potevano udire nelle baracche dei campi di concentramento quando era ora di coricarsi e cercare di dormire. Ruhe significa letteralmente «pace». Forse è stato questo contrasto, scaturito dal concetto di pace, calato quasi fuori luogo nel buio del campo di concentramento, a farmi pensare alla sofferenza. Da lì, alla passione di Cristo, il passo è stato breve.

Dopo tanti anni, cosa rappresenta per te quest’opera?

Un’esperienza straordinaria, condivisa con due grandi amici. Sandro per me è un fratello. Lo conosco da quando eravamo ragazzini e la musica ci ha sempre legati; questo progetto, che suoniamo da così tanto tempo, ha avuto fin dalle prime esecuzioni una sua forma definitiva e distintiva proprio grazie al suo lavoro: gli arrangiamenti di …ruhe…ruhe! sono tutti di Sandro. Stefano, dal canto suo, ha grande sensibilità e considerevole esperienza, soprattutto per quanto concerne la musica d’insieme, caratteristiche che emergono puntuali nelle sue efficaci parti strumentali. E’ bellissimo sentirsi compresi…

Prossimi appuntamenti?

Lunedì 8 aprile 2019, ore 20.30, Chiesa di S.Zita a Genova in Via S. Zita 2

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Intervista a Raffaello Bisso

Raffaello Bisso, al centro.

Allora, cosa succede di bello a San Bernardino?

In effetti succedono tante cose belle… Serate di musica e arte ricercate e insolite, dall’Italia e da fuori; elettronica sperimentale, ma anche musica acustica o vocale, purché di ricerca e in cerca di ascoltatori curiosi e pronti a veder messe in crisi le proprie categorie estetiche e di genere. Dal 2011 abbiamo proposto più una mezza dozzina di serate all’anno, portandoci a casa successi come il concerto dei Changes (USA, attivi dal 1969), Purpha (Russia), Of the Wand & the Moon (Danimarca) e tanti altri artisti meno noti ma che hanno dato vita a eventi secondo noi senza molti confronti nel panorama cittadino.

L’ambiente sembra decisamente ‘vocato’ per la musica di ricerca.

In effetti l’ex abbazia, spazio sacro del XVII secolo spogliato di tutti gli arredi ecclesiali, a suo tempo bombardato e recentemente restaurato, con la navata molto alta e l’altare, le finestre allungate e il riverbero naturale offrono una combinazione unica, molto drammatica. Abbiamo avuto gruppi stranieri che ci hanno chiesto di poter suonare a SB semplicemente dopo aver visto una foto dell’Abbazia su Internet.
Alle doti… naturali della location cerchiamo di affiancare professionalità organizzativa; abbiamo un impianto dedicato che tariamo sulle necessità della musica proposta grazie a un membro del progetto che è fonico professionista di lungo corso.

Una sfida alla tanto lamentata stagnazione culturale genovese.

Una sfida sin qui vinta anche perché siamo un gruppo informale, gli eventi sono totalmente no-profit e basati sulla qualità e l’originalità delle proposte. A parte i concerti veri e propri, abbiamo proposto esposizioni-esibizioni dedicate a specifici strumenti come il Theremin e il Synth Modulare in cui musicisti, costruttori e modder hanno messo in mostra le loro macchine con cui il pubblico ha potuto interagire direttamente; serate dedicate a strumenti autocostruiti; serate di teatro sperimentale nelle quali artisti sonori e visivi si sono mossi con noi lungo il bordo frastagliato tra generi convenzionali.

Per sapere cosa succede, e quando?

SB: https://www.facebook.com/ElectronicTheater/

Parliamo della musica che fai tu, parliamo di My Right of Frost (MROF). Siete già attivi da qualche tempo…

Ci siamo presentati su diversi palchi genovesi alla fine del 2011. La buona accoglienza che ha trovato la nostra musica ci ha piacevolmente sorpreso, dato il genere, ehm, peculiare che proponiamo… così siamo andati avanti.

Ci caratterizza una forte dimensione live e improvvisativa, abbiamo bisogno di presentare i nostri suoni e gli strumenti con i quali li facciamo.

Quindi il pubblico resta sorpreso tanto dalla vostra proposta sonora, quanto dalla vostra strumentazione.

E’ il momento per me di più grande soddisfazione e divertimento quando il pubblico, finito il concerto, viene sul palco per vedere e toccare la nostra strumentazione, per fare domande. Non abbiamo strumenti tradizionali; utilizziamo apparecchi autocostruiti, oggetti rifunzionalizzati: giochi sonori, calcolatrici, oscillatori, radio, giradischi trasformati in theremin ottici… quelli che amo definire oggetti sonori termine messo in campo dalla paleoantropologia all’inizio del XX secolo per fronteggiare la difficoltà di definire “musicali” strumenti rinvenuti dall’archeologia. Se vuoi, è un modo di percorrere al contrario l’evoluzione della strumentazione (soprattutto) elettronica, o una forma di circuit bending con pretese colte…

L’interno dell’ex abbazia di San Bernardino (Ge)

Ma i brani non sono totalmente improvvisati…

I brani sono rigorosamente scritti, utilizzando una notazione sviluppata appositamente; la durata e il tempo musicale dei pezzi sono stabiliti, così come l’intervento delle voci (a volte sintetiche) che leggono i testi dei brani. Questa discretizzazione dello sviluppo temporale è ottenuta operando su fattori gestibili come i volumi e la durata del pezzo – in parallelo alla gestione invece estemporanea dei passaggi in zone non lineari di retroazione, per cui improvvisata è la catena di feedback, inneschi improvvisi, eventi imprevedibili derivanti da criticità elettroniche, collegamenti casuali, batterie volutamente non caricate abbastanza, rumore elettromagnetico, luci ambientali che agiscono sulle fotocellule, e altro.

Chi sono gli MROF?

Francesco Marini suona il Theremin e altri strumenti autocostruiti di non immediata e agevole definizione; Andrea Lombardi cura l’impasto e la miscelazione dei suoni e quella che chiamiamo propaganda: sito, pagina FB, merchandising, rapporto con i locali, accessori visivi che usiamo dal vivo; io (Raffaello Bisso) elaboro e costruisco gli strumenti di cui sopra, e li suono pure. Inoltre mi occupo della parte tecnica. Tutti partecipiamo alla composizione dei brani.

Di recente è nata una collaborazione con un flautista classico e con un poeta/attore che legge testi scritti appositamente per i brani. Le serate che abbiamo fatto con loro sono state sorprendenti, queste persone hanno una grande preparazione strumentale e professionale e voce e strumento acustico si legano in modo lasciami dire meraviglioso con i nostri suoni dirompenti.

Il nome…. ?

My Right of Frost è un pezzo di un verso rubato da una delle poesie più belle, desolate e perentorie di Emily Dickinson, come può confermare qualsiasi motore di ricerca!

Contatti?

Pagina FB: https://www.facebook.com/myrightoffrost/

Sito: http://myrightoffrost.blogspot.com/

Soundcloud: https://soundcloud.com/hardrain-1

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Intervista a Mike fC

Michele Ferroni, in arte Mike fC, ci parla della sua vita, dei suoi progetti musicali, del suo rap in genovese.

Mike fC

Gh’é da acatâ o pan, passâ da-o maxellâ e portâ a speiza a-a nonna, ti peu anâ oua?”.

(C’è da comprare il pane, passare dal macellaio e portare la spesa alla nonna, puoi andare ora?)

Talvolta frasi come questa affiorano nella mia mente. Mi fanno sorridere, forse perché sono legate a momenti sereni di vita quotidiana, ma non solo, credo che in esse ci sia qualcosa di più profondo, un legame.

Sono un essere umano e come tutti quelli della mia specie sono nato e cresciuto da qualche parte; dopo un po’ di anni ho iniziato a domandarmi se fosse stato solo un caso nascere in Liguria, a Genova, e trascorrere buona parte della mia vita a Campomorone, a metà tra periferia e campagna. Casualità o no, so che se avessi vissuto altrove sarei in qualche modo diverso e forse non avrei mai iniziato a cantare in genovese.

Mi chiamo Michele, in arte Mike fC, mi piace giocare con i suoni e le parole, sia in lingua italiana, sia in lingua ligure. Il genere musicale da cui sono partito è il rap, mi ha dato la possibilità di esprimermi, di dare voce a quello che non riuscivo a comunicare in altro modo. Crescendo, ho sempre cercato di vivere la musica come un’esperienza di divertimento, gioia e condivisione, anche se a volte ho sofferto poichè non riuscivo a dedicarmi a essa come avrei voluto.

Quando scrissi la mia prima canzone in genovese, intitolata Zena, ci fu una svolta nella mia vita. Il brano ebbe un gran successo soprattutto per la sua particolarità, per quellle sonorità rap portate da un ragazzo di 22 anni fino ad allora semisconosciuto a Genova. Non so bene come mi vennero in mente le parole di quella canzone, arrivavano da ciò che mi circondava, dai suoni rimasti dentro me, come quello della voce di mia madre che mi manda a fare la spesa per la nonna.

Da allora sono andato avanti con i miei progetti musicali, faticando per via del percorso di studi che ho affrontato, ma non solo. È stato un cammino impegnativo, accompagnato da momenti di ispirazione, come quando realizzai la canzone In te ‘n abbrasso, e momenti di sconforto durante i periodi di esami. Una volta ottenuta la laurea in ingegneria sono riuscito gradualmente a riprendere il rapporto con la musica e sono accadute tante belle cose, come partecipare al Festival della canzone in lingua ligure di Albenga e vincere al debutto, realizzare la canzone Tou lì insieme ai Demueluin e portare a termine un documentario sull’Alta Via dei Monti Liguri.

In ognuno di questi progetti credo che emerga il legame nei confronti del territorio e di quello che hanno vissuto le generazioni passate, ma dando anche un mio contributo, portando innovazioni e sperimentazioni. Le cose stanno andando molto bene e sono veramente grato per tutto quello che ho ricevuto dall’ambiente che mi circonda, anche in ambito musicale.

Ho sempre ammirato i canterini di Trallalero, mi piace ascoltare il loro lavoro di squadra che mette in risalto le qualità vocali di ogni componente, creando qualcosa di straordinario, “una gloria”, come ha detto qualcuno. Credo che questa gloria derivi anche dal legame di cui parlavo prima, tra terra e abitanti, del quale a volte ci dimentichiamo, ma che ritroviamo nei suoni dei canterini e credo anche in un certo tipo di rap.

 

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Intervista a TriOblique

TriOblique

TRALLALERONLINE: Salve ragazzi, grazie per averci concesso questa intervista. Innanzitutto, potete dare una breve presentazione del vostro progetto per i nostri lettori?

TRIOBLIQUE: Buongiorno! Grazie per questo spazio. Il TriOblique è un progetto nato a Genova recentemente: il nostro repertorio attinge alla musica da ballo tradizionale del centro-nord della Francia, arricchita da influenze più moderne e trasversali. Una buona parte della nostra musica consiste nelle affascinanti canzoni a ballo in catena provenienti dalla Bretagna, ma insieme a queste il repertorio è ricco delle danze più ricorrenti nell’ambito del bal-folk, come la bourreé, la mazurka, il valzer, la scottiche, la polka e la chapelloise.

TOL: Anche sul vostro sito internet si legge la definizione di bal-folk. Di che cosa si tratta?

T: Il bal-folk è un vasto movimento che recentemente sta riscoprendo la magia delle danze popolari dell’Europa occidentale. Nell’ultimo decennio sempre più persone si riuniscono in tutta Europa per danzare insieme, rivitalizzando e reinventando la musica tradizionale in un’ambiente di condivisione e amicizia. Dai più piccoli incontri ai grandi festival, moltissimi giovani in Italia, Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Germania hanno ritrovato il piacere del ballo popolare, creando lo spazio per numerosi gruppi musicali che propongono musica da ballo in vesti sempre nuove e diverse.

TOL: E per quanto riguarda il vostro Trio, quali strumenti impiegate? Qual è il background musicale dei componenti del gruppo?

T: La forza motrice del gruppo è Aurelien Congrega, giunto da Parigi, un rockettaro da tempo prestato alla musica popolare, un pozzo di scienza per ciò che riguarda danze e canzoni tradizionali. La sua voce è l’elemento di traino delle canzoni del gruppo, e il suono del suo bouzouki irlandese intesse le melodie e le ritmiche che conferiscono al Trio un’impronta sonora caratteristica.

Susanna Roncallo, nativa di Sant’Olcese, è una bravissima chitarrista dallo stile molto personale, conosciuta per il suo affascinante repertorio di chitarra fingerpicking.

Dario Gisotti, suonatore di uilleann pipes e tin whistle (cornamuse e flauti irlandesi) è da 10 anni impegnato nell’ambiente della musica tradizionale irlandese, e i suoi strumenti a fiato caratterizzano fortemente il suono del gruppo.

Tre voci molto diverse, tre strumentisti molto diversi, con background completamente differenti, per altro tre persone dal carattere completamente diverso, eppure un incontro fortunato, perché dal lavoro fatto insieme sta scaturendo un’energia molto positiva, e una musica che ci soddisfa tantissimo!

TOL: Noto però che non avete all’attivo dischi o altro materiale discografico. È previsto qualche lavoro a breve?

T: Il TriOblique è un progetto molto giovane! Non prima di giugno ha iniziato a prendere forma l’idea di questo gruppo, e abbiamo fatto un lavoro furiosamente veloce per mettere insieme il nostro repertorio, che ci sta ora permettendo di fare un buon numero di concerti in tutta Italia con grande soddisfazione. Ad ogni modo, è nostra intenzione avere un disco pronto prima di quest’estate, e sarà un buon compromesso tra musica strumentale e vocale, tra musica antica e moderna, tra brezza e tempesta!

TOL: Siete quindi già attivi dal vivo! Potete nominare qualcuno degli eventi a cui avete partecipato? 

T: Quest’estate la nostra prima uscita pubblica è stata a un bellissimo festival sull’Appennino, lo
Zap Fest (http://www.zapfest.it/), che consigliamo a tutti! In seguito abbiamo suonato a Bassano del Grappa grazie all’associazione “Uno è la Danza”, e a Cremona grazie al gruppo “La Combriccola
del Folk”. Abbiamo di recente suonato anche a Genova, grazie ad una interessantissima realtà
chiamata “Spazio Lomellini”, e in tutti questi casi abbiamo avuto un generoso responso da parte di ballerini ed ascoltatori.

Tra pochi giorni, il 14 febbraio, saremo a Torino presso la Casa del Quartiere, grazie all’associazione “Liberi Danzatori”, e poi altre date seguiranno, non soltanto in Nord Italia!

Prossimi appuntamenti:

14 febbraio, Casa del Quartiere, Torino (Liberi Danzatori).

21 febbraio, Circolo Combattenti Montegrappa, Genova.

5 aprile, Via Bobbio 26d, Genova (Gruppo danze di Banda Brisca).

17 maggio, Napoli (Neapolis Bal Folk)

TOL: L’idea di condividere tutte queste danze popolari sembra molto bella! Ma per chi non sa ballare, come si fa?

T: Non preoccupatevi, sembra davvero più difficile di quanto non sia. Tanti di noi, di questi tempi, hanno perso la piena capacità di muoversi a proprio agio nello spazio, e la danza per molte persone non è più una parte integrante della quotidianità, per cui il primo approccio è per molte persone alquanto scoraggiante.

Nonostante ciò, la comunità ‘danzerina’ è aperta e amichevole, e i principianti ricevono l’aiuto quasi incondizionato dei ballerini più esperti… quindi scegliete un concerto, e buttatevi: si impara un po’ alla volta, ma non per forza lentamente!

Per altro a Genova molti gruppi si riuniscono con cadenza settimanale per divertirsi e approfondire le danze di una o l’altra regione d’Europa, quindi consiglio a chi è interessato di approfittarne.

Sicuramente dimenticherò qualcuno, ma ogni settimana abbiamo:

  • Il lunedì le riunioni della “Folkaccia

  • Il venerdì le riunioni del “Ballatoio

  • Ancora il venerdì, ormai da anni, si riuniscono i ballerini di “Banda Brisca” in Via Bobbio

  • Il sabato mattina le riunioni di “Passi e Ripassi

  • I martedì sera d’estate, al Porto Antico, le belle serate del “Martedì Folk”

TOL: Grazie ancora per l’intervista, allora! Lasciate un saluto per i nostri lettori

T: Vi ringraziamo per lo spazio, e salutiamo tutti i lettori della rivista con una raccomandazione: riappropriatevi della musica popolare, ascoltate e ballate, è una medicina formidabile! Che sia musica della Bretagna, dell’Auvergne, delle Quattro Province, del Salento o della Sardegna, e non scordiamoci del nostro Trallallero. Tutti questi ritmi e queste melodie sono ancora annidati da qualche parte nelle nostre menti, e tutti i passi sono lì nascosti nei nostri piedi, pronti a essere riportati in vita!

per contattare TriOblique: dario.gisotti@yahoo.it

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